Lo sguardo dell’escluso in “Il gelsomino notturno”

«E s’aprono i fiori notturni nell’ora che penso a’miei cari» così comincia una delle poesie più famose e suggestive di I canti di Castelvecchio. I cari di Il gelsomino notturno sono i pezzi dispersi del nido familiare di Pascoli. Nido decimato in poco tempo dall’imprevisto più impietoso che ci sia: la morte.

Il dolore della perdita

Tutto comincia il 10 agosto del 1867, quando il padre del poeta (amministratore di una fattoria dei principi di Torlonia) muore sulla strada che da Cesenatico l’avrebbe riportato a casa, a San Mauro di Romagna. È «colui che non ritorna» della poesia La cavalla storna (I canti di Castelvecchio), l’uomo che in X agosto (Myricae) «stava tornando al suo nido, quando lo uccisero» e che «prima di morire disse: perdono». La sua morte ricorda quella di Bastianazzo in I Malavoglia perché anch’essa inaugura una concatenazione di disgrazie che finirà per travolgere l’intera famiglia.

Nel 1868 muore la madre, più tardi la sorella Margherita e i fratelli Luigi e Giacomo. Il poeta resta solo con le sorelle Ida e Maria, a cui si attacca in modo morboso. Il loro è un nido piccolo, ferito, costantemente pervaso dal timore di rimpicciolirsi ancora. La paura impedisce a Pascoli di gettarsi nel flusso della vita, ne fa un poeta dell’esclusione. In Letteratura italiana. Un metodo di studio Tellini sostiene che il «fanciullino musico» di Pascoli non rappresenti un «infantilismo sentimentale che dà voce al fascino delle piccole cose» ma «una forma drammatica di regressione dinanzi a una realtà storica, privata e pubblica, sentita come angoscia e minaccia». La paura di affrontare l’esistenza spinge Pascoli a ripiegare sul rovescio della pagina su cui scorre la vita degli altri, a auto-escludersi dal palco scenico per farsi perennemente spettatore. 

Il tema dell’esclusione in “Il gelsomino notturno”

Il senso di esclusione permea Il gelsomino notturno anche se la poesia è stata scritta in occasione di un evento lieto, il matrimonio dell’amico Raffaele Briganti. La vita è «là», nella «casa che bisbiglia», nel lume che passa su per la scala e che a un tratto si spegne. Si spegne perché la vita si nasconde laddove lo sguardo del poeta non può arrivare: nel mistero dell’intimità. È la prima notte di nozze dei due sposi, un momento accessibile dall’esterno solo attraverso il filtro del simbolo. Quello che accade nella casa è rappresentato dall’apertura del gelsomino, che come il grembo della sposa, di notte si apre alla fecondazione per compiere il miracolo della vita.

L’ultimo verso del componimento recita: «si cova, dentro l’urna molle e segreta, non so che felicità nuova». Una chiusura in positivo se non fosse per quel «non so». Il non sapere del poeta mette una distanza in più tra lui e la «felicità nuova» che attende i due sposi. È la felicità di un nido che si allarga quando Pascoli ha sperimentato solo nidi che si rimpiccioliscono. La felicità che si specchia nell’immagine della «Chioccetta» (personificazione della costellazione delle Pleiadi)  che «per l’aia azzurra va col suo pigolio di stelle», ma che anche in questo caso il poeta può guardare solo da lontano.

E allora resta lì, nel suo riflesso di vita, a pensare ai suoi morti e a vivere nel loro ricordo proprio come loro continuano a vivere nel suo cuore. Stretto in una notte che non è solo il ponte tra la fine di una giornata e l’inizio di un’altra, ma una condizione esistenziale in cui la sofferenza di ciò che non è stato si mescola alla malinconia per ciò che non potrà mai essere. 

Fonte foto: mydisclosedsoul.wordpress.com

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