Dolce come lo zucchero

dolce zucchero

Nella grande distribuzione ormai un chilo di zucchero si acquista a 2 euro, meno se in offerta. È difficile credere che questo prezioso alimento, con il quale facciamo colazione, sia stato in passato un prodotto di lusso, assimilato ad una spezia, e che sia diventato un prodotto di massa solo grazie allo sfruttamento dell’ambiente e degli schiavi ed al cinismo della prima rivoluzione industriale.

Una parola che è un diario di viaggio

«La parola zucchero deriva dal latino saccharon, traslitterazione del greco σάκχαρον (sakkharon), indicante un distillato dolce estratto dalle giunture della canna di bambù […]. Passo indietro fino all’arabo (as)sokkar e al persiano shakar, quindi il pali sakkharā e finalmente il sanscrito शर्करा (śarkarā), che indicava originariamente la sabbia o i ciottoli» (Mauro Aresu «Una parola al giorno»).

La parola sanscrita śarkarā è l’unica traccia che abbiamo del passato indiano, e probabilmente prima cinese, dello zucchero perché a noi è arrivato attraverso gli Arabi che ne fecero una fiorente industria ed un importante commercio.

Dal punto di vista chimico lo zucchero s’identifica nel saccarosio: un composto presente nei vegetali e tra i vegetali domesticati quello che inizialmente ne presentava la maggiore concentrazione era la canna da zucchero o cannamele in cui esso arriva sino al 18% del peso del fusto ed è stata la canna da zucchero, che cresce in climi temperati, che gli Arabi hanno iniziato a coltivare ed a trattare prima in Mesopotamia, poi nei Paesi del bacino del Mediterraneo sotto il loro controllo, compresi la Sicilia e la Spagna.

In Sicilia la zona di produzione e lavorazione si concentrò nelle alture e sulle coste di Palermo sfruttando gli originari frantoi oleari romani: i trapeta divenuti in siciliano trappiti. Trappeto (in origine Trappetum cannamelarum) è ancora il nome di un Comune della Città Metropolitana di Palermo in cui la produzione dello zucchero da canna fu impiantata, con le stesse tecniche arabe, sotto il dominio aragonese.

Le canne, raccolte nel periodo invernale, venivano bruciate per eliminare i parassiti, sminuzzate e poi macinate nel frantoio da cui veniva estratto uno sciroppo diluito e poi cotto e fatto cristallizzare per il commercio come zucchero grezzo.

Un procedimento che richiedeva enormi quantità di legname al punto che proprio la produzione dello zucchero è la responsabile dello spoglio del bosco di Partinico e delle alture di Monreale.

La raffinazione dello zucchero avveniva successivamente e ci permette di documentare, attraverso la toponomastica, il ruolo che la Serenissima ebbe nell’importazione e nel commercio dello zucchero (detto dai veneziani sale arabo) in Europa: la Corte della raffineria a Cannaregio, in fondamenta della Misericordia; la calle dello Zucchero a Dorsoduro 411 e il sotoportego e la corte dello Zucchero, sempre a Dorsoduro 2365, la Corte Raffineria a San Polo 1902, la calle della Raffineria a San Polo 1907 sono tutti luoghi in cui veniva realizzata a Venezia la raffinazione dello zucchero grezzo importato dagli Arabi.

Dal Mondo arabo ai Caraibi

Furono per primi gli spagnoli ad intuire le potenzialità delle isole caraibiche, grazie al clima ed agli schiavi africani, per la coltivazione della canna da zucchero a basso costo e che determinarono le fine del monopolio arabo dello zucchero sino a concentrarne nel nuovo continente la produzione.

Questo processo a basso costo comportò un prezzo altissimo in termini di vite umane e di sofferenze prima degli schiavi e poi, abolita formalmente la schiavitù, da parte delle popolazioni locali rimaste sottomesse al dominio dei proprietari delle piantagioni.

Lo zucchero di Napoleone

Niente sollecita la ricerca scientifica più dell’esistenza di un monopolio e dalla fine del 1600 il monopolio dello zucchero passò definitivamente dagli arabi agli spagnoli e poi alle compagnie inglesi.

Quel monopolio spinse, in un processo che si concluse ai primi dell’800, i francesi Olivier De Serres e Carl Achard ed il tedesco Andreas Marggraf a studiare il modo di estrarre lo zucchero e cristallizzarlo da altre specie vegetali fino ad individuare in una varietà di barbabietola, la bianca di Slesia, quella più adatta a sostituire la canna da zucchero.

Fu Napoleone Bonaparte che ne intuì per primo le potenzialità e che finanziò un vasto programma di produzione a livello industriale di zucchero da barbabietola: era nato lo zucchero bianco e a basso costo che troviamo sulle nostre tavole di oggi.

Alle guerre napoleoniche si collega un mito che periodicamente riaffiora nella rete: quello secondo cui le ossa dei circa 40.000 caduti nella Battaglia di Waterloo, di cui obiettivamente si sono perse le tracce, siano state raccolte dai belgi e rivendute all’industria saccarifera per la raffinazione dello zucchero da barbabietola.

Una storia probabilmente inventata, ma del tutto verosimile considerato il cinismo che permeò la prima rivoluzione industriale.

Lo zucchero italiano

Nelle reminiscenze scolastiche degli alunni del boom la barbabietola da zucchero è ancora ben impressa: a quegli occhi infantili, che nutrivano la loro sete di sapere con i sussidiari, l’Italia era una enorme distesa di coltivazioni di barbabietole da zucchero.

Al di là del mito, è vero che nella seconda metà dell’800 nella piana reatina fu impiantato il primo zuccherificio italiano entrato in produzione il quale, grazie all’industriale Emilio Maraini, conobbe un notevole sviluppo fino alla metà degli anni ’70.

Ad oggi la stragrande maggioranza dello zucchero che consumiamo è d’importazione: meno del 30% è di produzione nazionale.

Eppure moltissimi italiani sono convinti che lo zucchero di barbabietola che trovano al supermercato sia italiano.

Potere dei sussidiari.

Foto di jacqueline macou da Pixabay

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