La cucina italiana esiste

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Ciclicamente c’è qualcuno che mette in discussione o addirittura nega apertamente l’esistenza della «cucina italiana». Un’operazione peraltro speculare rispetto a quella di coloro che vorrebbero fare della stessa «cucina italiana» un modello gastronomico universale e che ne affermano una sorta di superiorità rispetto alle altre cucine.

Paradossalmente, ma inevitabilmente, entrambi gli schieramenti utilizzano le medesime fonti storiche, che sono invero assai limitate, ed i medesimi studi, di natura perlopiù antropologica, finendo per attuare una versione storico-culinaria del celebre adagio dell’economista inglese Ronald Harry Coase: «if you torture the data long enough, it will confess to anything» (se torturi i dati abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa).

Le origini della «cucina italiana»

La risposta alla domanda sulle origini della «cucina italiana» sottende in realtà un altro quesito: ha senso parlare di «cucina italiana» prima dell’Unità d’Italia?

Prima del 1861 l’Italia era solo, come affermava Metternich, una denominazione geografica e quindi negare l’esistenza della «cucina italiana» perché essa non sarebbe antecedente all’Unità è un controsenso.
Specularmente è una forzatura retrodatare sino alla cucina dell’Antica Roma le origini della «cucina italiana» come lo è cercare un filo conduttore tra le moltissime culture culinarie che nel corso delle epoche hanno inciso sull’alimentazione delle popolazioni che poi sarebbero confluite nell’Italia unitaria.

Vero è invece che taluni alimenti come l’olio d’oliva, i cereali, il vino, i formaggi, le carni avicunicole, ovine e bovine, il pesce del Mediterraneo, la frutta e gli ortaggi, tutti provenienti con diversi percorsi dalla Mezzaluna fertile, sono di origine antichissima e sono rimasti una costante e lo sono tutt’ora, al punto che la loro produzione condiziona il paesaggio italiano, della cucina praticata in Italia.

Pellegrino Artusi e la costruzione della «cucina italiana»

Borghese mazziniano, Pellegrino Artusi, più che il «padre della cucina italiana», com’è tuttora descritto, si può sicuramente definire il primo e più fervente ideologo della necessità della «cucina italiana» come completamento, parallelamente a quello dell’unificazione linguistica a danno dei dialetti, dell’Unità italiana.

«Sì mangiando risotto a Milano, come spaghetti a Napoli, o fettuccine a Roma, io mi sento italiano, e godo dell’italianità sì del Barolo a Torino come del Sassella valtellinese: e mi parrebbe peccato guastare questa stupenda varietà gastronomica, né per questo mi sento meno unitario». Così Alfredo Panzini, arguto saggista contemporaneo di Artusi, replicò a quella sorta di furore ideologico unitario che permeava «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» dell’Artusi il quale intuì che nella costruzione politico-economica dell’Italia, in cui la questione alimentare era il problema nazionale numero uno, la cucina era lo snodo culturale attraverso cui passavano le risorse, gli approvvigionamenti, i soldi, i conti e la stessa qualità della vita (in tal senso Alberto Capatti, «Cucina e morale spicciola», ne «Il Secolo Artusiano»).

Per creare questa «nuova cultura culinaria» (ancora Alberto Capatti) Artusi scelse la nuova borghesia post-unitaria, nella quale era perfettamente inserito, e fece leva su due fattori che si sono rivelati determinanti: il buon gusto e l’anelito dell’italiano medio a mangiar bene, a soddisfare il palato e non solo la fame.
Agli occhi di una popolazione in gran parte analfabeta, con enormi sacche di povertà che furono alla base del fenomeno migratorio italiano, cucinare all’italiana seguendo il manuale di Artusi rappresentò un punto di arrivo.

Un fenomeno che si consolidò negli anni e che già alla fine degli anni ’20, con le riviste «La Cucina italiana» dell’imprenditrice Delia Pavoni Notari e «Preziosa» di Ada Boni (che compendierà il suo lavoro ne «Il Talismano della felicità») poteva dirsi completato tra le classi borghesi.

Operazioni editoriali che, diversamente dal libro dell’Artusi, non imposero un modello culinario, ma, recuperando e rivisitando le ricette della tradizione locale e i classici della cucina internazionale mediati attraverso i grandi cuochi italiani del passato e rendendoli fruibili anche al di fuori del loro contesto originario, persuasero l’universo femminile dell’epoca che cucinare all’italiana era relativamente semplice, alla portata di quasi tutti, migliorava la qualità della vita.

Fu però solo nel secondo dopoguerra, con l’emigrazione interna, un insperato benessere ed il ruolo determinante della televisione, dei frigoriferi e dell’industria conserviera, che la «cucina italiana» varcò i confini della piccola borghesia per assumere quel ruolo di fenomeno di massa che gli riconosciamo quotidianamente.

Il ruolo dell’emigrazione italiana

Sul piano storico-antropologico è pacifico che la «cucina all’italiana», una specie di patchwork dei saperi e dei sapori familiari degli emigrati, abbia rappresentato un forte elemento identitario tra le eterogenee comunità degli Italiani emigrati prima nel continente americano poi in quello australiano.

Che siano stati gli emigrati ad «inventare» la cucina italiana è invece tutto da dimostrare e basti pensare a quei piatti d’oltreoceano ritenuti italiani dagli emigrati e dai loro discendenti, ma disconosciuti dalla «cucina italiana»: gli spaghetti meaballs, la pizza pepperoni, la Caesar salad.

La cucina italiana esiste

La cucina italiana esiste. Ha i suoi capisaldi nella pasta, da consumare rigorosamente al dente come insegna Checco Zalone, nell’olio extravergine d’oliva e nei prodotti freschi; ha una folta schiera d’imitatori (l’italian sounding) è riconoscibile e come tutte le cucine vive di continue contaminazioni.

Convive, con alterne fortune, con le cucine locali e con quelle etniche dalle quali, da sempre, assimila ingredienti e contenuti per fonderli nell’italian taste, il gusto italiano che ci fa essere così schizzinosi verso le altre tradizioni culinarie.

Probabilmente non è un patrimonio culturale universale e immateriale degno di consacrazione da parte dell’Unesco, o meglio lo è al pari delle altre cucine, ma non è neppure un’operazione di marketing su larghissima scala.

Secondo il Rapporto Federalimentare-Censis 2023 nell’orientare i propri consumi alimentari (che assorbono poco meno del 20% della spesa delle famiglie) il 42,1% degli italiani si definisce un abitudinario, mangia cioè più o meno sempre lo stesso cibo, il 6,3% si dichiara italianista (sempre e solo prodotti italiani) ed il 5,8% convivialista, (considera il cibo importante perché occasione per stare con gli altri).

Si può quindi dedurre che la «cucina italiana», intesa anche come insieme di abitudini, convivialità, prodotti italiani, goda ancora del favore della maggioranza degli italiani.

E questo rappresenta forse la migliore risposta a coloro che ne negano l’esistenza.

Foto di Andreina Nacca da Pixabay

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