In Arte e bellezza dell’estetica medievale (1987) Umberto Eco menziona il Fisiologo, un’opera enciclopedica composta tra II e IV secolo in ambiente mediorientale e redatta in lingua greca. Ci dice che da essa «derivano tutti i bestiari medievali» perché vi è raccolto tutto quello che si sapeva circa «animali veri o presunti». In sostanza, l’opera riporta notizie precise sulla cornacchia come sull’unicorno, indipendentemente dal fatto che l’una esista e l’altro no. Questo perché, dice Eco, il Fisiologo «ha una sua idea della forma del mondo». E in questa idea tutti gli esseri del creato — animali compresi — parlano di Dio, sono «simbolo di una realtà superiore».
A questo proposito l’autore propone l’esempio del riccio. Il riccio, riporta il Fisiologo, ha l’abitudine di arrampicarsi sulla vite e andare dove c’è l’uva per far cadere i chicchi, rotolarcisi sopra, conficcarli negli aculei e così portarli ai figli, lasciando il tralcio spoglio. Ma perché ai ricci si attribuisce un comportamento tanto bizzarro? Semplice, per trarne un insegnamento morale: «il fedele deve rimanere attaccato alla Vite spirituale senza permettere che lo spirito del male vi si arrampichi e lo renda spoglio di ogni grappolo».
Leggere la realtà attraverso i simboli
Oggi avvertiamo come estraneo l’approccio alla realtà che caratterizza il Fisiologo. Per noi che veniamo dopo l’Umanesimo, la rivoluzione scientifica del Seicento, e soprattutto dopo l’Illuminismo e il Positivismo non è concepibile pubblicare un saggio senza prima aver verificato le informazioni tramite esperienza diretta. Come posso in un libro di scienza parlare dell’unicorno, descriverlo e affermare che esiste se nessuno l’ha mai visto?
Lo stesso vale per la storia. Che opera storiografica è quella che non si interessa di distinguere i fatti realmente accaduti dalle leggende? Eppure nel Medioevo si parla di Carlo Magno come di Re Artù, e all’uomo medievale non importa nulla che l’uno sia esistito e l’altro no. Questo perché ciò che conta non è la concatenazione di cause e effetti in cui si snoda la storia umana. Quello che interessa è il valore simbolico delle singole figure e dei singoli eventi. Nel Medioevo tutto è simbolo, tutto è allegoria e tutto reca in sé una lezione.
L’allegoria e l’ordine divino
Il termine allegoria viene dal greco allon (altro) e agoréuo (dico), e indica l’espressione di un concetto astratto attraverso un’immagine concreta. Leggere il mondo attraverso le allegorie significa guardare un oggetto e essere consapevoli che esso rimanda ad altro. In questo caso con “altro” si intende qualcosa di più alto: un ordine divino in cui tutte le cose sono unite da legami profondi che l’uomo sa cogliere solo separatamente, ma che visti nella loro totalità rivelano la Verità ultima.
L’allegorismo dispiegato in infiniti bestiari, erbari, enciclopedie e addirittura opere letterarie è il tentativo dell’uomo medievale di avvicinarsi il più possibile a questa Verità divina: l’unica che conta per vivere nel modo giusto e salvarsi. Il rapporto tra l’allegoria e il culto cristiano è chiarissimo nel linguaggio allegorico della Divina Commedia. Apparentemente si parla di un viaggio attraverso i regni dell’Oltretomba. In realtà l’aldilà non è altro che l’al di qua visto dalla prospettiva di Dio e il viaggio è simbolo del percorso dell’umanità verso la salvezza.
La petizione
Ai medievali la questione della salvezza preme molto di più del saper distinguere animali reali da bestie mitiche. Ecco perché nel 1373 i fiorentini richiedono formalmente al Comune di Firenze di «essere istruiti nel libro di Dante, dal quale tanto nella fuga dei vizi quanto nell’acquisizione delle virtù […] possono anche i non grammatici essere informati». In larga parte analfabeti, vogliono che qualcuno legga e faccia capire loro le parole di Dante. Lo desiderano perché sono convinti che attraverso quella narrazione piena di simboli si possa imparare a vivere.
Foto di Mystic Art Design da Pixabay
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