Israele. Attacco palestinese da Gaza

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Israele. Esattamente 50 anni dopo lo scoppio della Guerra del Kippur, è scoppiato l’ennesimo conflitto arabo e israeliano. In entrambi i casi di sabato, approfittando che la popolazione ebraica fosse impegnata nelle celebrazioni religiose. Nel 1973 fu l’Egitto ad attraversare il Canale di Suez e ad attestarsi su un lembo della penisola del Sinai, allora occupata militarmente da Israele.

La ricorrenza è stata scelta appositamente perché unica volta – sinora – che gli arabi erano stati capaci di attaccare di sorpresa Israele. Ed anche a simbolo di sfregio da parte degli islamici per le festività religiose ebraiche. 50 anni fa, dopo 18 giorni di guerra, fu la diplomazia degli Stati Uniti a fermare le truppe israeliane. Diversamente sarebbero giunte sino al Cairo. Ma ciò è stato rimosso dall’immaginario collettivo dei palestinesi.

Israele. Cosa è successo nel week end

Sabato scorso sono partiti da Gaza verso Israele circa 2500 razzi facendo circa 160-170 morti. Contemporaneamente i miliziani dell’organizzazione terroristica Hamas hanno attaccato alcuni villaggi israeliani di confine, con altri 5-600 morti e catturando 200-250 ostaggi. La maggior parte dei morti e dei prigionieri è frutto dell’attacco a una manifestazione rave di pacifisti provenienti da tutto il mondo sino ai confini di Gaza.

La risposta israeliana, ancorché agli inizi, avrebbe fatto altri 450 morti e circa un migliaio di feriti. Ciò che più conta è stata la dichiarazione dello stato di guerra, da parte del parlamento israeliano, dopo sole 24 ore. Nelle prossime ore si attende l’attacco via terra. Sempre che non sia già iniziato.

Conflitto tra Israele e la Palestina, riassunto delle puntate precedenti

Ogni volta che, periodicamente, risorge un conflitto tra Israele e gli arabo-palestinesi, occorre fare un riassunto delle puntate precedenti. Dal 1967 Israele occupa due territori poi auto costituitisi in Stato Palestinese: la Cisgiordania e la “striscia” di Gaza. Tuttavia già dal 2004, Israele si è ritirato militarmente da Gaza. La Cisgiordania è grande poco più dell’Abruzzo ed è abitata da circa 3,4 milioni di abitanti. Gaza, più piccola del principato di Andorra, è abitata da circa 2 milioni di abitanti. Israele ha poco meno di 9 milioni di abitanti di cui circa il 20% di etnia araba.

Fino al 1967 le due entità territoriali facevano parte del regno di Giordania (la Cisgiordania) o erano amministrate militarmente dall’Egitto (Gaza). Poi erano state conquistate da Israele, a seguito della “Guerra dei sei giorni” (1967). A seguito degli accordi di pace di Camp David (1979) e di Oslo (1995), l’Egitto e la Giordania hanno rinunciato alla sovranità sui due territori. Con l’intesa, però, che Israele negoziasse direttamente con le popolazioni locali i termini della loro indipendenza. A tal fine, infatti, fu costituita un’Autorità Nazionale Palestinese come legittimo interlocutore.

All’interno dell’ANP, tuttavia, esistono due componenti. In Cisgiordania è maggioritaria Al Fatah, fondata da Yasser Arafat e più incline al negoziato. A Gaza è presente esclusivamente Hamas, che Israele e gli Stati dell’Occidente considerano un’organizzazione terroristica. Hamas, pur essendosi costituita nel 1987, si ritiene ancora in guerra con Israele e non lo riconosce come Stato. Per tale divisione interna, ogni proposta territoriale israeliana per l’indipendenza della Palestina è stata rifiutata dall’ANP. Gli attacchi di sabato scorso, provenienti da Gaza, sono stati inflitti esclusivamente da Hamas.

Perché Hamas non riconosce Israele

Le condizioni imprescindibili che Hamas pone per il riconoscimento dello Stato israeliano sono principalmente due. In primis il ritorno dei profughi palestinesi nelle sedi abitate prima del 1948. Tale data di riferimento risale a oltre 75 anni fa e ben pochi sono i profughi ancora in vita. Perciò rivendicano tale diritto in capo ai loro discendenti. Si fa presente che in questi insediamenti, 75-80 anni fa, vi erano casupole in disfacimento o semplici tende. Ora invece vi sorgono moderne città con tutti i comfort realizzate dagli israeliani.

In secondo luogo chiedono la “laicizzazione” dello Stato d’Israele. Nel senso che ogni riferimento all’ebraismo dovrà essere depennato dalla Costituzione. La parola “laicismo” a dire il vero stona alquanto sulle labbra medio orientali. Le due maggiori confessioni islamiche, infatti, la sunnita e la sciita, fanno entrambe riferimento a un capo di Stato: l’ayatollah dell’Iran, per quanto riguarda gli sciiti, e il Re dell’Arabia Saudita, per quanto riguarda i sunniti. Entrambi governano dispoticamente in base alla Shariah, cioè la legge islamica immutata ed immutabile dall’alto medio evo.

I palestinesi sono sunniti ma nel tempo sono stati abbandonati al loro destino dai loro correligionari. Per questo Hamas ha stretto progressivamente legami con l’Iran sciita. È infatti l’Iran (e il Qatar, sciita anch’esso) ad avergli consegnato gli armamenti per attaccare Israele. L’Iran ha anche armato sino ai denti la milizia sciita libanese degli Hizbullah, che stanzia al confine nord israeliano. Inoltre è presente in Siria dove sponsorizza il dittatore Assad. Ma è anche il nemico principale dell’Arabia Saudita che teme una sua eventuale potenza nucleare.

Conflitto tra Israele e Hamas, il gioco delle parti

Oltre alla ricorrenza “storica”, infatti, Hamas ha attaccato proprio ora per evitare la conclusione di un accordo “distensivo” tra Israele e l’Arabia. Sa perfettamente che Ryad ha tutto l’interesse a consentire il passaggio degli aerei israeliani sul suo territorio. Israele, infatti, ha già dichiarato di aver pronto un blitz per impedire che l’Iran sia in grado di realizzare ordigni nucleari. E ciò ai sauditi fa estremamente comodo.

Al momento attuale Hamas, visto lo storico successo militare ottenuto (il primo dei palestinesi su Israele), vorrebbe evitare un attacco israeliano di terra. Esso porterebbe a una lotta senza quartiere a Gaza, con decine e forse centinaia di migliaia di morti tra i civili. Forse anche la fine stessa di Hamas. Per pura informazione si fa presente che si stima che Israele sia in possesso di circa 80-200 testate nucleari.

Hamas sarebbe disponibile a rilasciare gli ostaggi (che per 2/3 sono pacifisti stranieri) in cambio della liberazione dei terroristi palestinesi dalle carceri israeliane. In tal modo si porrebbe di fronte a tutti gli arabo-palestinesi come unica forza in grado di contrastare gli israeliani e di far valere i loro diritti.

La posizione del governo israeliano

Benjamin Netanyahu, premier dello Stato di Israele, ha ottenuto significativi vantaggi politici dall’attacco subìto. Attendeva da tempo l’occasione per sferrare un attacco di terra contro Gaza e ora ne ha l’autorizzazione della Knesset. Poi, ha colto l’occasione per invitare i leader dell’opposizione a unirsi a lui per formare un governo di unità nazionale. Ciò lo farebbe diventare il leader indiscusso del paese.

Ha fatto bene Netanyahu a separare le responsabilità di Hamas da quelle della popolazione palestinese. In un annuncio, infatti, ha invitato gli abitanti di Gaza ad allontanarsi dalle postazioni e dai depositi militari di Hamas. L’intenzione di Israele – ha detto il premier – è infatti quella di sconfiggere il terrorismo e non quella di far male alla popolazione inerme.

Il conflitto sul piano internazionale

Per questo gli Stati Uniti stanno inviando la portaerei Gerald Ford nelle acque di Gaza. Ciò dimostra che l’appoggio di Biden a Israele non è affatto tiepido. La presenza della Ford renderebbe estremamente difficoltoso il rifornimento di armamenti da parte di Hamas. Inoltre renderebbe possibile un attacco USA dal mare per la liberazione degli ostaggi occidentali. L’Iran si è espresso esplicitamente a favore di Hamas.

Sembra chiaro che l’impegno statunitense a favore di Israele metta necessariamente in secondo piano quello a favore di Kiev. Già da un anno Washington è riluttante a sostenere l’Ucraina a tempo indeterminato. A novembre 2024 ci sono le elezioni presidenziali e Biden non si vuole presentare agli elettori con la “pratica” ancora aperta.

Gli americani hanno acconsentito a rimandare i contatti di pace con Mosca per non “tarpare le ali” a un’eventuale controffensiva ucraina. Hanno però sempre saputo che tale controffensiva avrebbe portato a pochi risultati. Con tutta probabilità il prossimo inverno, si vedrà – almeno in questo conflitto – la fine del lungo tunnel.

Foto di Bruce Emmerling da Pixabay

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