La politica giusta secondo Vittorio Alfieri: rifiuto della tirannide e desiderio di libertà

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Nell’VIII capitolo di Vita scritta da esso, parlando del suo «Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia», Vittorio Alfieri afferma: «io, avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali a fare a Maria Teresa la genuflessione di uso, con una faccia sì servilmente adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta all’autorità despotica da me sì caldamente abborrita». 

Nell’inchino di Metastasio all’imperatrice d’Austria, Alfieri vede un intellettuale cortigiano che, vilmente, sottomette se stesso e la propria arte («Musa appigionata») alla tirannide. Un fatto inaccettabile per chi come lui aborrisce ogni tipo di autorità e non potrebbe immaginare una vita degna di essere vissuta se non all’insegna dell’affermazione di valori come la libertà e la dignità. Con l’espressione «giovenilmente plutarchizzando», l’autore si riferisce ai personaggi forti, magnanimi e amanti della libertà di cui racconta Plutarco di Cheronea (letterato greco vissuto tra I e II sec. d.C) nella raccolta di biografie Vite parallele. Profili che rappresentano l’antitesi del cortigiano e ricordano straordinariamente sia il ritratto che Alfieri disegna di se stesso nella Vita sia gli eroi libertari delle sue prime tragedie.  

Il grand tour e il delinearsi dell’idea politica di Alfieri 

I viaggi in Germania, Danimarca e e Svezia sono solo una parte del grand tour che il giovane Alfieri — da buon aristocratico piemontese cresciuto in piena età dei Lumi — compie tra il 1767 e il 1772. In questi cinque anni di viaggi per l’Italia e per l’Europa, Alfieri ha la possibilità di toccare con mano le condizioni politiche e sociali del Vecchio continente. Si accorge che l’assolutismo impiaga quasi tutte le società europee. Questo provoca sdegno e insofferenza in un giovane tanto inquieto e appassionato. Dunque, è proprio durante il grand tour che inizia a formarsi il pensiero politico di Alfieri. La sua idea di giustizia politica è caratterizzata da un rifiuto categorico della tirannide e dal desiderio di libertà, valore da perseguire eroicamente, anche a costo della vita.  

Nel trattato Della tirannide (scritto di getto nel 1777) l’autore afferma addirittura che coloro che si asserviscono alla tirannide non meritano di definirsi uomini («turpissimi armenti che […] si vanno pure usurpando il nome di uomini»). Al contrario, coloro che vogliono essere liberi, se non possono rovesciare la tirannide devono per lo meno evitare di esserne contaminati, ritirandosi in un isolamento sdegnoso che preservi almeno la propria libertà interiore. Scrive infatti Alfieri: «allorché l’uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per mancanza di proprie ed altrui forze vi si trova al tempo stesso incapace di scuoterlo, dee allora un tal uomo […] star sempre lontano dal tiranno, da’suoi satelliti, dagli infami suoi, dalle inique sue cariche». Ma se l’isolamento non dovesse essere sufficiente, a quel punto l’eroe deve ricorrere al suicidio.

Il conflitto tragico tra tiranno e liber’uomo

Della tirannide si colloca nel momento più radicale e rivoluzionario della riflessione politica di Alfieri, in concomitanza con gli inizi della produzione tragica. Sia nel trattato che nelle prime tragedie troviamo lo scontro titanico tra «tiranno» e del «liber uomo». Si pensi a Filippo, tragedia ideata nel 1775 e ispirata alle vicende di Filippo II, divenuto di Spagna nel 1556. Qui le figure antagonistiche sono re Filippo e il figlio Carlo: due personaggi diversi «quanto dalla virtute è il vizio». 

Filippo è il tiranno incapace di amare, geloso del figlio e destinato alla solitudine. Carlo è l’eroe che, incapace di opporsi al tiranno, sceglierà di suicidarsi come estremo atto d’amore per la libertà. Prima di pugnalarsi infatti dirà: «Oh ferro… te caldo ancora d’innocente sangue, liberator te scelgo». E pregherà l’amata Isabella di fare lo stesso («D’amor infausto quest’è il consiglio estremo: in te raccogli tutto il coraggio tuo: — mirami… io moro… Segui il mio esempio») perché sa che una vita in cui l’essere umano non è libero di affermare se stesso è una vita vissuta a metà. 

Foto di Jeff Jacobs da Pixabay

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