La virtù e la condanna di Aristotele e degli Spiriti Magni 

Virtù Aristotele

Ai versi 130-132 del canto IV della Commedia, Dante racconta: «Poi ch’innalzai un poco più le ciglia/ vidi ‘l maestro di color che sanno/seder tra la filosofica famiglia». Parla di Aristotele, il grande filosofo di Stagira che fu precettore di Alessandro Magno. Tra Duecento e Trecento, seppur filtrata dalle interpretazioni di Avicenna e Averroè, quella aristotelica era considerata la filosofia per eccellenza. Come riporta l’enciclopedia Treccani, attorno alla metà del XIII secolo i testi di Aristotele erano pressoché gli unici su cui si insegnava la filosofia nelle facoltà delle Arti. Dante stesso ne accoglie le dottrine e non esita a riproporle nella sua opera più grande.

L’influenza della dottrina aristotelica nella Commedia 

Limitandoci all’Inferno, si pensi al canto VI. È appena avvenuto l’incontro con Ciacco nel terribile cerchio dei golosi. Dante domanda a Virgilio se dopo il Giudizio Universale, quando le anime saranno ricongiunte ai loro corpi, soffriranno di più o di meno le loro pene. Virgilio lo invita a ripensare a ciò che dice Aristotele per darsi una risposta: «Ritorna a tua scienza,/ che vuol, quanto la cosa è più perfetta,/ più senta il bene e così la doglienza./ Tutto ciò che questa gente maledetta/in vera perfezion già mai non vada, di là più che di qua essere aspetta». 

Oppure si ripensi ai versi 80-83 del canto XI: «Non ti rimembra di quelle parole/con le quai la tua Etica pertratta/le tre disposizion che l’ciel non vuole,/incontinenza, malizia e la matta/bestialitade?». Qui Virgilio fa riferimento all’Etica di Aristotele. L’opera esprime la concezione morale secondo cui le tre disposizioni d’animo che portano al peccato sono l’incontinenza (lussuria, gola, avarizia, prodigalità e ira), la violenza e la malizia (la frode). Ed è su questa concezione che Dante si fonda per costruire la geografia morale della prima cantica.

La virtù e la condanna degli Spiriti Magni

Tornando al canto IV, non stupisce che Aristotele venga presentato come uno spirito onorato e ammirato («Tutti lo miran, tutti onor li fanno»). È il fulcro della «filosofica famiglia», la punta di diamante in base alla quale si misura il valore dei filosofi che gli stanno intorno. Quelli che gli sono più vicini (Socrate e Platone) si pongono in primo piano rispetto a coloro che stanno un passo indietro (Democrito, Diogene, Annassagora, Talete e così via). 

Dante li ammira, così come ammira i poeti Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, lo stesso Virgilio, i valorosi Ettore e Enea e gli altri abitanti del castello del Limbo. Sono tutti Spiriti Magni, ovvero anime grandi che sono state meritevoli verso l’umanità. Eppure sono collocati all’Inferno, in un mondo sospeso, e anche se non sembra scontano una pena. Non possono vedere Dio perché in vita non hanno potuto o voluto ricevere il Battesimo. Pertanto vivono nel desiderio di Lui senza la consolazione della speranza. Nemmeno la loro grandezza può portarli in Paradiso. Questo perché anche se la Commedia è un’opera dotata di spirito didattico che dà grande importanza alla conoscenza, è pur sempre anche un prodotto del Cristianesimo medievale in cui la salvezza si gioca sulla fede in Cristo ancor prima che sulle buone azioni.

Foto di Donna Kirby da Pixabay

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.