Cibo e tecnologia: nemici o alleati?

Cibo

Agli albori della fantascienza il cibo scomparve dal futuro immaginato, sostituito da più pratici alimenti sintetizzati: ora che la presenza umana nello Spazio è diventata quotidiana gli astronauti della ISS hanno un «bonus food» per variare la dieta standard. Tra i nostri, Samantha Cristoforetti ha scelto quattro varietà di olio extravergine d’oliva e l’insalata di quinoa con sgombro e verdure, Paolo Nespoli la lasagna mentre Luca Parmitano si è concesso la parmigiana di melanzane ed il tiramisù. Cibo ipertecnologico, perché ovviamente adattato alla Stazione Spaziale, ma pur sempre cibo che si mangia.
Sulla Terra le cose vanno in maniera leggermente più complessa e dal secondo dopoguerra aleggia nell’animo degli addetti ai lavori e dei semplici consumatori una domanda: il cibo e la tecnologia sono nemici o alleati?

Da Nicolas Appert al dado di Aldo Fabrizi

La storia del consumo del cibo da parte dell’uomo è indissolubilmente legata ai progressi tecnologici: è la tecnologia, almeno a livello embrionale come la gestione del fuoco, che ha consentito alla specie umana di valicare il mondo animale e che ha trasformato i primi ominidi in onnivori. Senza la gestione del fuoco alcuni alimenti, come i cereali, non sarebbero commestibili, non si potrebbe trasformare il latte crudo in formaggio, risulterebbero difficilmente mangiabili, o quantomeno indigeste, la maggior parte delle carni e lo svezzamento sarebbe notevolmente ritardato.
La chimica è una componente essenziale della cucina: basti pensare alla conciatura dei salumi.
Procedimenti arcaici rimasti immutati nei secoli che, con gli occhi di oggi, non consideriamo però tecnologici.
La vera svolta tecnologica è avvenuta poco più di un secolo fa con l’invenzione delle conserve alimentari e tutti noi siamo debitori verso il chimico francese Nicolas Appert (da cui il procedimento di «appertizzazione» che molti conoscono perché è lo stesso utilizzato per la bollitura delle bottiglie di pomodoro) le cui scoperte hanno consentito di dilatare enormemente la vita degli alimenti attraverso l’inscatolamento.
Se oggi consideriamo come un gesto naturale aprire una lattina di pomodori pelati lo dobbiamo ad Appert ed a Francesco Cirio che nel 1856 aprì la prima fabbrica di conserve alimentari (inizialmente piselli) e nel 1875 realizzò i primi stabilimenti campani per la produzione delle conserve di pomodoro.
Fa sorridere, ricordando la «buatta di pomodoro» di «Miseria e nobiltà» ed il nostro rapporto quotidiano con i pomodori pelati e la pasta, che Cirio pensasse non al mercato italiano, ma a quello francese, ma la realtà e che in Italia sino al secondo dopoguerra l’approvvigionamento alimentare era per lo più di prossimità e strettamente legato alla stagionalità.
Fu con i Liberatori angloamericani che l’Italia, stremata dalla guerra e dalla fame, conobbe realmente le conserve alimentari e se ne innamorò: i filmati d’epoca ed i racconti tramandano la distribuzione da parte dei militari americani delle loro «razioni K», dove K indica Ancel Keys lo stesso che qualche anno dopo avrebbe scoperto la dieta mediterranea.
Pochi anni dopo, nel 1948, gli italiani scoprirono il «dado da brodo» che si diffuse rapidamente anche grazie al martellamento dei Caroselli.
Nell’Italia del boom le conserve alimentari ed il dado da brodo, che riducevano drasticamente i tempi di preparazione, sembravano rappresentare l’elemento decisivo per affrancare la popolazione meno abbiente dalla schiavitù della preparazione dei pasti e persino Aldo Fabrizi, a suo modo paladino della cucina tradizionale, non disdegnò di inserire «er dado che je dà sapore» nelle sue ricette.

I conservanti ed il forno a microonde sono cancerogeni?

La luna di miele tra gli Italiani e le conserve finì bruscamente quando iniziò a diffondersi la notizia secondo cui la maggior parte dei conservanti e degli additivi alimentari, introdotti dall’industria in modo sempre più massiccio per prolungare la durata delle conserve ed abbatterne il costo, fossero dannosi per la salute.
Dati in realtà smentiti dalla ricerca scientifica laddove questi indispensabili coadiuvanti delle conserve alimentari (che in etichetta troviamo con un numero preceduto dalla lettera E) siano gestiti nella stretta osservanza delle norme europee ed il consumo dei cibi conservati non sia prevalente e sia correttamente associato a quelli freschi.
Un destino analogo è stato riservato dai media alla cottura a microonde che si è diffusa grazie alla rapidità del processo ed al mantenimento dell’integrità degli alimenti. Anche in questo caso la garanzia per la salute è data dalla stretta osservanza delle norme di sicurezza, nella specie relative ai forni.

Antichi sapori e nuove tecnologie

Nel terzo millennio, complice il complessivo smarrimento dei consumatori al cospetto della globalizzazione alimentare, vi è stato un massiccio ritorno, soprattutto nella narrazione e nella descrizione del cibo, agli «antichi sapori» nella ricerca di una sorta di ritorno ad un’epoca aurea in cui il cibo era «autentico».
Suggestioni smentite dalla realtà storica e basta leggere «Il ventre di Napoli» di Matilde Serao, con la sua minuziosa descrizione del cibo di strada della Napoli della fine dell’800, per realizzare che gli antichi sapori oggi rimpianti erano il rancido, il marcio, il nauseabondo di un’epoca in cui la sicurezza alimentare era un optional e la conservazione refrigerata inesistente.
È la tecnologia, in realtà, che ci consente ogni anno di godere dell’olio extravergine d’oliva di qualità, di far maturare le carni (a temperatura e pH controllati) per periodi un tempo impensabili, che ci permette di variare la dieta e di adattarla alle nostre esigenze senza svenarci economicamente.

La «neutralità tecnologica» ed il cibo

La «neutralità tecnologica», definita come la libertà di individui e organizzazioni di scegliere la tecnologia più appropriata adeguata alle loro esigenze, dovrebbe guidarci anche nel nostro rapporto tra cibo e tecnologia.

Non tutta la tecnologia applicata al cibo è buona (si pensi agli oli deodorati di cui ci occuperemo in un’altra occasione) ma non tutta la tecnologia è cattiva: dipende dallo scopo per cui è impiegata.

Contraffazione, adulterazione, sofisticazione sono certamente frutto di applicazioni tecnologiche al cibo, ma anche preservazione, freschezza, integrità sono il risultato della tecnologia.

La differenza, come sempre, la fanno le nostre scelte.

Foto di Faisal Mehmood da Pixabay

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