Il passato, il futuro e l’invisibile

«Quello che lui cercava era sempre qualcosa davanti a sé, anche se si trattava del passato era un passato che cambiava man mano egli avanzava nel suo viaggio, perché il passato del viaggiatore cambia a seconda dell’itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto». Siamo in una delle pagine più belle di Le città invisibili di Italo Calvino. Lo scrittore, formulando un discorso che solo apparentemente si regge su paradossi, ci sta dicendo che non è solo il futuro a svilupparsi sulla base delle scelte del passato. Anche il passato cambia alla luce del futuro e questa mobilità rende lo ieri inedito e imprevedibile proprio come il domani. 

Non c’è una vera e propria linea di confine. Passato e futuro si mescolano in un presente sospeso e ripetitivo, che nell’opera si concretizza in un luogo meditativo dal sapore edenico. È il giardino in cui Marco Polo incontra ogni sera l’imperatore Kubilai Kan, a cui riporta ciò che ha visto spostandosi tra le città del vasto impero tartaro. Sono relazioni particolari, molto diverse da quelle degli altri ambasciatori. Polo non parla di carestie, concussioni o ricchezze tratte dalle miniere. Descrive città incredibili che sono «un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio».

La città e l’emblema

Tuttavia il viaggiatore veneziano non conosceva la lingua tartara, infatti le prime relazioni vengono esposte mediante gesti o oggetti che Calvino definisce emblemi. Ogni emblema corrisponde a una città, ogni città è animata da una condizione esistenziale così complessa e radicale da non poter essere espressa a parole. Perché questa condizione possa essere percepita nella sua interezza essa deve incarnarsi in un simbolo che la trasmetta immediatamente senza strapparla alla sfera del sottinteso. Così l’emblema si imprime nella mente dell’imperatore più di quanto possano fare gli altri ambasciatori con i loro lunghi discorsi. 

Gli emblemi continuano a giocare un ruolo essenziale anche quando Marco Polo si impratichisce con la lingua tartara. Le notizie che arrivano sotto forma di parole non li sostituiscono, ma semplicemente li sostanziano: «Il nuovo dato riceveva un senso da quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema un nuovo senso». Man mano che il Gran Kan ascolta i resoconti si rende conto che il viaggiatore scompone e ricompone continuamente gli stessi elementi, creando decine di varianti sullo stesso tema. Capisce così che quelli che vogliono sembrare pezzi di una mappa geografica in realtà sono semi di una mappa mentale.

Il visibile e l’invisibile

Le città descritte da Marco Polo sono come i sogni: traggono linfa dal reale ma ne rimescolano gli elementi, dando vita a un rebus tenuto in piedi da una logica segreta che mescola desideri e paure. Sono dette invisibili perché non esistono: si configurano come possibilità che la realizzazione della città reale ha escluso. Rappresentano tutte le vite che il singolo non ha vissuto ma che per contrasto definiscono l’unica che gli appartiene («Mentre al tuo cenno, sire, la città una e ultima innalza le sue mura senza macchia, io raccolgo le ceneri delle altre città possibili che scompaiono per farle posto e non potranno più essere ricostruite né ricordate»).

Ma se le città invisibili esistono in funzione della città reale anche la città reale esiste in funzione delle città invisibili. Quando il Gran Kan chiede a Polo di parlare di Venezia, il viaggiatore gli risponde: «E di che altro credevi che ti parlassi?». Venezia infatti è la «città implicita», quella di cui si ritrova un pezzo in ognuno dei luoghi immaginari descritti. Imprigionarla nelle parole significa rimpicciolirla così Polo la scompone, la dissemina, la disperde nelle varie combinazioni delle città-sogno.

Eppure, considerata la mobilità del passato, il dubbio di averla conservata per davvero resta. Marco Polo infatti afferma: «Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano. […] Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta a poco a poco». Oppure potrebbe essere proprio lei, la sua città d’origine, quella discontinua nello spazio e nel tempo che «ora rada e ora densa» segna la destinazione ultima del suo viaggio esistenziale.

Fonte foto: lapennanelcassetto.wordpress.com

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