Il pianista afroamericano William Grant Naboré, 83 anni e tanta gioia di far musica, è uno dei riferimenti assoluti nel panorama mondiale di questo nobile strumento: raffinato interprete dall’ampia discografia, instancabile promotore culturale e, last but not least, uno dei più rinomati pedagoghi al mondo. Quirino Principe, noto critico e saggista musicale, lo ha definito “un Maestro di importanza storica e internazionale”. Parlare con lui equivale, infatti, a leggere un libro che racconta la storia del pianismo del XX secolo.
Nato a Roanoke, in Virginia, nel 1941, Naboré è arrivato a Roma nel 1959, come vincitore di una borsa di studio del governo italiano. Ciò gli ha permesso di studiare con il grande Carlo Zecchi, pianista, didatta e direttore d’orchestra, pupillo di Ferruccio Busoni e Artur Schnabel. Ha affiancato alla frequenza del Conservatorio studi universitari di Musicologia, con Luigi Ronga. Il suo pianismo si è avvalso anche dei rapporti didattici con altri nomi leggendari, come Renata Borgatti, Rudolf Serkin, George Szell, Alicia de Larrocha. Terminato il percorso formativo romano, che ha compreso anche lo studio del clavicembalo, si è trasferito a Ginevra nel 1964, dove ha avuto il privilegio di studiare musica da camera con il violoncellista francese Pierre Fournier, rinomato per l’estrema eleganza delle sue esecuzioni: lo seguì privatamente per un decennio, dal 1970 al 1980. Concluso anche il percorso di studi nella città romanda, con la conquista del Premier Prix de la Virtuosité e del Prix Paderewski del Conservatorio, ha intrapreso una brillantissima carriera, e il suo giro del mondo, da interprete e da didatta, continua ancora oggi, con impegni in Europa, Stati Uniti e Cina. Il desiderio di tramandare quanto appreso dai suoi grandi maestri lo ha portato a fondare, nel 2002, una prestigiosa accademia sulle sponde del lago di Como, dove ogni anno accoglie pochi e selezionatissimi alunni dallo sfolgorante talento: l’International Piano Academy – Lake Como, con sede a Dongo, grazioso paese di poco più di 3200 abitanti, che vanta antichissime radici romane.
Maestro, tra i suoi alunni figurano numerosi vincitori dei più prestigiosi concorsi pianistici internazionali, e tanti sono a loro volta diventati docenti e insegnano nelle migliori università e accademie musicali. Come fa a ottenere questi risultati straordinari? Qual è il suo segreto?
Non c’è nessun segreto. Ho sempre insegnato non per vincere i concorsi – che tra l’altro detesto! – ma per conoscere la musica da vicino, per imparare a guardarla, a viverla davvero. Ho avuto l’immensa fortuna di aver visto insegnare i più grandi, e ho assorbito la loro lezione, facendola mia. So di avere il dono di saper ascoltare l’allievo e individuare cosa abbia di speciale. Leon Fleisher diceva che io possiedo il miglior naso possibile per riconoscere il talento. Se sento suonare un giovane e lo trovo eccezionale, desidero che venga a studiare nella mia accademia, e faccio di tutto per farcelo arrivare.
Accademia rinomatissima. Ce ne vuole parlare?
L’ho fondata nel 2002, insieme a Martha Argerich, mia grande amica, che ne è presidente onoraria. Provenivo dall’esperienza della mia precedente scuola, l’International Piano Foundation di Cadenabbia, sponsorizzata da Theo Lieven, uomo d’affari tedesco, anch’egli pianista. Volli conservarne il lascito: tra i suoi professori annoverava nomi straordinari del firmamento mondiale – Karl-UIrich Schnabel, Rosalyn Tureck, Alicia de Larrocha, Dmitri Bashkirov, Leon Fleisher, Charles Rosen, Murray Perahia… – attratti sulle sponde del lago di Como dall’eccezionale talento degli alunni. Grazie a Lieven, infatti, potevamo ammettere i pianisti più di talento, non necessariamente danarosi. Tutto era gratuito: lezioni, vitto, alloggio. A un tratto però le cose sono cambiate e i docenti, nonostante avessimo perso il nostro finanziatore, hanno creduto nel progetto e deciso di restarmi vicino. Malgrado il tempo trascorso e il fatto che alcuni di loro non sono più con noi, l’accademia mantiene i suoi punti di forza: un piano di lavoro che vede docenti e discenti condividere la vita quotidiana insieme, la gratuità e l’esclusività. I posti disponibili ogni anno sono soltanto sette, per giovani di particolare valore.
Lei è sempre stato in contatto con eccezionali interpreti del suo tempo. Basti pensare che la sua prima insegnante, Kathleen Kelly Coxe, è stata allieva di Alexander Siloti, che fu maestro anche di Rachmaninov.
Ero ancora un bambino, e la Coxe mi ha seguito solo per due anni, perché fu minacciata dal Ku Klux Clan – in Virginia il razzismo era molto forte – e dovette rinunciare a darmi lezioni. Entrai quindi al prestigioso Hollins College, sotto la guida di Anne McClenny. A lei, che era anche musicologa, devo una parte curiosa del mio repertorio: la musica pianistica americana del Settecento e Ottocento, che ho scoperto grazie alle sue ricerche.
Rispetto alle sue esperienze, come vede il mondo pianistico di oggi?
Ci sono moltissimi bravi pianisti, che però si concentrano solo su due elementi esecutivi: forza e velocità. Mancano l’approfondimento culturale, la ricerca della bellezza del suono, il carisma del grande interprete, che si concretizza in tre componenti fondamentali: personalità, originalità del messaggio e gusto per il rischio. Questo stato delle cose è una diretta conseguenza del perfezionismo richiesto nei concorsi: chi suona è condizionato dal desiderio di ottenere un’esecuzione pulita, praticamente perfetta. Quando capita di ascoltare un concerto in cui l’interprete pensa più alla musica che al nitore esecutivo, e quindi “rischia”, il pubblico lo percepisce, e reagisce con grande entusiasmo. Sono proprio i musicisti di questo tipo che fanno la differenza e riempiono le sale. Recentemente invece ho ascoltato un giovane pianista russo eseguire Haydn come se fosse Prokofiev! Un chiaro esempio di come velocità e forza vincano sulla sensibilità interpretativa. Senza dimenticare che i grandi interpreti del passato avevano il loro proprio suono, riconoscibile al primo ascolto.
Lei ha un repertorio molto ampio che comprende anche la musica contemporanea. Ha un autore o un periodo prediletti?
Sono molto legato al Classicismo e al Barocco. Sono stati il repertorio d’elezione dei miei maestri, e mi dispiace enormemente che se ne stia perdendo la tradizione interpretativa. Il Mozart di Zecchi era leggendario, e io ho potuto approfondire con lui questo autore per ben quattro anni. Nei concorsi di oggi si sentono pochissime sonate di Haydn, Mozart e Beethoven: tutti optano per Liszt, Prokofiev e Rachmaninov, dimenticando che i tre grandi viennesi sono la base della musica classica. Non saperli eseguire nel modo corretto è una grande lacuna, nella preparazione di un musicista. Non bisogna trascurare poi l’approfondimento storico-musicologico. Io ho avuto la fortuna di studiare clavicembalo con Ferruccio Vignanelli, un grande misantropo, ma allo stesso tempo un docente eccezionale. Con lui ho sviscerato Scarlatti, Haendel, Couperin, Rameau. Quest’ultimo ora sta diventando di moda: io invece l’ho suonato tantissimo in un tempo in cui era ancora semisconosciuto ai pianisti.
Ha eseguito anche tanta musica da camera…
Sono molto orgoglioso di aver organizzato numerose stagioni concertistiche dedicate al repertorio cameristico, che era considerato la Cenerentola della musica classica. Accadde su invito del Sindaco di Ginevra: la stagione si chiamava Amadeus Festival, e prese l’avvio nel 1988. Nella prima edizione furono eseguiti tutti i trii con pianoforte di Beethoven, e fu un successone. Poi abbiamo proseguito con molte altre integrali, ottenendo sempre il tutto esaurito. Le chiamavamo “le Naboriadi”, parafrasando le Schubertiadi. Avevo creato un’équipe di validissimi musicisti, tra cui molti giovani, tenendo per me le parti per pianoforte. A quest’avventura, durata 20 anni, ho affiancato un festival dedicato alla musica solistica, organizzato fuori Ginevra, non lontano da dove abitava Maria Josè, l’ultima regina d’Italia. Ho avuto modo di conoscerla: una persona squisita, che veniva ad ascoltare i concerti e spesso mi invitava a casa sua, mandando lo chaffeur a prendermi, perché desiderava che le suonassi qualcosa.
Dopo aver vissuto tanti anni in Svizzera, a cosa è dovuta la scelta di tornare a vivere in Italia, e più precisamente a Roma?
Gli anni di studio al Conservatorio Santa Cecilia sono stati i più belli della mia vita. Ero partito per la Svizzera dopo la scomparsa di Renata Borgatti, un’altra musicista eccezionale, che per me fu quasi una madre. A Ginevra mi resi conto di un ambiente un po’ troppo geloso dei miei successi, e la cosa mi amareggiò profondamente… E allora il caso ci mise lo zampino, quando mi capitò di vedere una commedia romantica hollywoodiana ambientata a Roma, Only you, dove riconobbi subito i luoghi in cui avevo vissuto. La nostalgia si fece sentire più forte che mai, e decisi di tornarci.
E noi ne siamo felici e onorati, Maestro! Per finire, quale consiglio si sente di dare ai nostri lettori giovani musicisti?
Affiancate allo studio della musica quello dell’arte, della letteratura, del teatro. Siate originali, interessanti, non robotici. Osate, dite la vostra attraverso i suoni dello strumento, non siate il clone di altri o del vostro maestro. Siate professionali: è una cosa che esigo dai miei allievi. E, ovviamente, studiate! Con attenzione, amore e serietà. Un ultimo consiglio: dedicatevi anche ad organizzare concerti, perché tra i vostri compiti c’è anche far innamorare della musica un pubblico sempre più vasto, incrementarne il numero ed educarlo alla bellezza.
Nella foto, il Maestro William Grant Naboré, insieme al vincitore del XVIII Concorso Internazionale Chopin di Varsavia, nel 2021, Bruce Liu, uno dei suoi alunni.
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