La letteratura futurista, le parole in libertà, la guerra

letteratura

Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista, datato 11 maggio 1912, Marinetti afferma che si debba «abolire l’aggettivo perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale». L’aggettivo caratterizza il sostantivo, gli dà una sfumatura e presuppone una sosta meditativa. Al contrario, secondo i futuristi il nome dev’essere presentato nella sua essenza, svincolato dalle altre parti del discorso e disposto casualmente nella frase. Solo così può essere libero di esprimersi in tutta la sua dinamicità. Per questo oltre all’aggettivo, il Manifesto afferma che vadano eliminati anche gli avverbi, la punteggiatura, la sintassi. 

La distruzione della sintassi, il valore dell’analogia e il maximum di disordine

La distruzione della sintassi è il segno più evidente della rottura della letteratura futurista con quella tradizionale. Non è più il tempo dei ritmi lenti della contemplazione, è il momento delle connessioni veloci, della «percezione dell’analogia» a scapito della similitudine. Soppresso il “come”, il “quale”, il “simile a”, restano solo immagini che nascono dall’accoppiamento di due sostantivi che all’apparenza non c’entrano niente l’uno con l’altro (es. uomo-torpediniera, donna-golfo, piazza-imbuto). 

Il valore dell’analogia era già stato espresso ampiamente dai simbolisti ottocenteschi. I futuristi lo condividono e lo portano all’esasperazione. Ritengono che l’analogia sia «l’amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico, e polimorfo, può abbracciare la vita della materia». La percezione analogica non ha preferenze e non agisce secondo gerarchie. Essa va oltre le categorie, mette in connessione entità nobili e meno nobili senza dare importanza al diverso grado di nobiltà. Ne derivano immagini spontanee che non possono essere orchestrate, dato che ciò presupporrebbe un atto di riflessione. L’unica soluzione è disporle secondo un «maximum di disordine».

La libertà e la violenza

Un seguito ininterrotto di sostantivi che determinano un’ «immaginazione senza fili»: è questo l’obiettivo dei letterati futuristi. Non più la bellezza, l’armonia, l’equilibrio. Si ricerca «il brutto», si uccide la solennità. Non più razionalità e logica, ma la pura intuizione che per Marinetti e i suoi seguaci è «dono caratteristico delle razze latine». Non più discorsi regolati da una sintassi più o meno articolata, ma soltanto «parole in libertà». Una libertà che tuttavia affonda le proprie radici ideologiche nel culto della violenza, della potenza, della macchina e della guerra come «igiene del mondo». Tutti principi che Marinetti aveva già elencato nel Manifesto del futurismo del 1909, e che — anche se possono lasciare perplessi dal punto di vista morale — dicono molto sul contesto storico-culturale degli anni immediatamente precedenti la Grande guerra.

Il terzo punto del Manifesto del futurismo descrive un modello di letteratura che si rispecchia perfettamente nell’operazione delle parole in libertà: «La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno». Anche le parole in libertà dunque possono considerarsi un atto di forza che vuole rompere le catene di una tradizione letteraria concepita ormai come statica e funeraria. Una richiesta gridata a gran voce nel Manifesto, con l’utilizzo di molti imperativi e punti esclamativi, che incarna una necessità di cambiamento, nonché una tensione al conflitto che è prossima all’esplosione.

Foto di lisa runnels da Pixabay

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.