Il maccheronico: una lingua sbagliata che diventa poesia

Bruegle il Vecchio, Il paese della cuccagna

Dal “noio volevam savoir” di Totò al “we are aperts” di un bar italiano, il maccheronico è una lingua alla buona, piena di errori, inventata da chi non conosce bene l’idioma che vuole imitare. È un fenomeno che si realizza spesso quando vogliamo parlare una lingua molto conosciuta o illustre, ma non nostra. Non è un caso, infatti, che fu proprio il latino la prima lingua ad essere storpiata in questo modo. Nel Medioevo e nell’età dell’Umanesimo, a causa del crescente prestigio del volgare, anche le persone più colte parlavano un latino volgarizzato. Notai e predicatori commettevano molti errori per ignoranza o per necessità di comunicazione. Fu così che, davanti a questo fenomeno così esilarante, alcuni intellettuali del tempo decisero di rubare il maccheronico agli incolti e di renderlo una lingua poetica.

Teofilo Folengo

Fu il Folengo a spiegare il significato del termine “maccheronico”: qualcosa di grossolano, fatto come i maccheroni. Una pietanza derivata da un miscuglio di farina, formaggio e burro dà il nome a un linguaggio in cui si mescolano latino e volgare. Fu proprio lui che elevò il maccheronico a lingua d’arte.

Gerolamo Folengo nasce a Mantova nel 1491 da una famiglia borghese. A diciannove anni entra nell’ordine benedettino assumendo il nome Teofilo. Nel 1517 pubblica una prima edizione delle sue Maccheronee, raccolta in latino maccheronico cui compare il suo capolavoro, il Baldus. La scrittura che il Folengo utilizza, sebbene sia ricca di errori, richiede un certo livello culturale. Infatti, l’autore la trasforma in una vera arte. Egli applica, su un lessico volgare, norme morfologiche, sintattiche e metriche del latino classico. Così, soltanto chi conosce bene il latino e la poesia antica può cogliere tutti gli scherzi e i giochi che il Folengo intesse nella sua epopea.

Il Baldus

In un paesaggio composto da alpi di formaggio, fiumi di brodo e laghi di zuppa da cui si pescano gnocchi, vivono le Muse maccheroniche. L’ispirazione poetica che Teofilo Folengo invoca all’inizio del suo lavoro non è spirituale ma mangereccia. Le grasse dee a cui si rivolge sono impegnate tutto il giorno a cuocere maccheroni con cui sfamare e ispirare il loro poeta: “imboccare suum veniant macarone poetam”. “Hae sunt divae illae grasse nymphaeque colantes”, queste sono quelle grasse mie dee, queste le ninfe sbrodolone.

Così inizia il Baldus, poema in cui si confondono l’Eneide e la vita quotidiana. Nello stesso incipit vediamo il progetto di Teofilo Folengo di parodiare l’epica e di presentare, sul piano letterario, una scrittura grossolana come il cibo a cui si ispira. Un prodotto poetico equivalente all’arte di cucinare i maccheroni. Pur essendo un poema cavalleresco, il Baldus fonde l’epico con il burlesco, la poesia colta con la corporalità e la materialità del mondo contadino. Qui si narrano le imprese di Baldo, un eroe che ha come amici dei furfanti e un gigante. Le sue avventure lo portano a lottare contro streghe, maghi, indovini e diavoli.

Baldo, segretamente imparentato coi reali di Francia, cresce a Cipada, un paese vicino Mantova. Viene al mondo ridendo, è bello e forte. Davanti alla sua grandezza l’inferno “sibi cagat adossum” – un’espressione vertiginosamente vicina al linguaggio triviale dei nostri giorni. Il migliore amico del nostro eroe è invece Cingar (zingaro in mantovano) “scampasoga” ossia scampaforca. Un ladro che viene sempre condannato a morte ma che, mentre lo tengono in cella, “presonem sbusat tornatque robare botegas” fa un buco nella prigione e torna a rubare nelle botteghe.

Il maccheronico e la gente del popolo

Baldo e Cingar prendono sempre in giro un personaggio: Zambello. Questi rappresenta il popolano sciocco, prodotto della letteratura satirica sui contadini del Medioevo. Un giorno Zambello sta “solus solettus ” nel campo, a “zappare fasolos”. E mentre Apollo spuntava da dietro le alpi vicentine “Zambellum iam iam mangiandi voia grezabat” lo stimolava la fame. L’elemento iperrealistico del contadino affamato si scontra con la descrizione epica del sorgere del sole, alla luce del quale il contadino denuncia l’ingiustizia della sua condizione. Così dovrò sempre tacere? Così creperò di marcia fame? “Sum pauper, nemo pro me vult spendere bezzum”: sono povero nessuno vuole spendere un bezzo per me. La lingua scelta da Teofilo permette di dar voce alle persone meno abbienti e di farle parlare di ciò che a loro sta a cuore.

Un altro umanissimo personaggio è Tognazzo, podestà di Cipada. Il maccheronico in questo caso sottolinea i tratti fisici di Tognazzo in maniera cruda e comica: il podestà ha le orecchie sporche e il moccio al naso. Del prete Jacopino invece si dice aveva passato tanti anni a scuola perché “nunquam poterat comprendere letram” non ha mai capito una lettera. Il Folengo, insomma, sa compatire gli oppressi e condannare gli imbroglioni, ma non fa il moralista, si diverte anche lui a prendere tutti in giro. Come fanno Baldo e Cingar.

Il linguaggio di Teofilo Folengo venne definito espressionista, grottesco, eccessivo, surreale, iperbolico. Forse una delle migliori definizioni della sua poesia la formulò Cesare Sagre che parlò di cannibalismo linguistico. Il suo maccheronico è un calderone che riesce a contenere il sé svariati livelli stilistici, che sa ascendere al latino più alto per poi buttarsi a capofitto nel volgare più scurrile. Scrisse anche delle opere il volgare, ma il suo linguaggio preferito rimase sempre il maccheronico.

Eleggendolo a lingua della sua fantasia, Folengo rendeva il maccheronico arte, vi accoglieva gli impulsi dell’esperienza linguistica contemporanea e la reinventava con creatività. Partendo dalla realtà, descrivendo la realtà ha narrato in maniera esilarante e affezionata un mondo che altrimenti sarebbe rimasto senza voce.

Fonte foto: Wikipedia

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