Valorizzare, diffondere e custodire il bene comune

manisopra

La Parola di Dio che leggiamo in questa domenica, la penultima dell’anno liturgico in corso, ci esorta ad essere vigilanti per il ritorno del Signore Gesù e, nello stesso tempo, operosi nel far fruttificare i tanti doni che Dio ci ha consegnato.

La pagina evangelica odierna, tratta ancora una volta dal libro dell’evangelista Matteo (25,14-30), racconta la nota parabola dei talenti. Il “talento” era una moneta romana di grande valore; il suo peso poteva toccare anche i 36 Kg e il suo valore era di circa seimila denari. Calcolando che un denaro ai tempi di Gesù era la paga quotidiana di un comune operaio, un talento corrispondeva, quindi, a circa 17 anni di retribuzione. Una ricchezza! E proprio per la notorietà di questa parabola, il talento è diventato ad oggi sinonimo di doti personali che ciascuno, stando al messaggio evangelico di oggi, è chiamato a far fruttificare.

La Parabola però ci invita a non fermarci solo a questa prima interpretazione, ovvia e immediata. In realtà, il Vangelo ci parla di “un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni” (Mt 25,14). L’uomo citato della parabola è Gesù stesso, i servi che compaiono al suo cospetto sono i discepoli; i talenti, infine, sono i doni che Gesù ci affida e che, in realtà, rappresentano le tante ricchezze che Gesù ha voluto lasciarci in eredità perché, col passare del tempo, possiamo farli fruttificare. La preziosa eredità di Gesù possiamo trovarla nella nostra vita, accogliendo docilmente la sua Parola, custodita nelle pagine della Bibbia e del Vangelo; l’eredità di Cristo è rappresentata anche dal dono inestimabile del Battesimo che, rinnovandoci attraverso la forza dello Spirito Santo, ci unisce a al Padre come figli; un altro dono è la preghiera, soprattutto quella del “Padre nostro”, scaturita dalle sue stesse labbra e che possiamo elevare a Dio come fratelli di Gesù Cristo; ma anche il suo perdono, che ha comandato di dispensare generosamente e senza reticenze a tutti; inoltre, il Sacramento dell’Eucarestia, farmaco salutare dell’anima e del corpo; ed infine, in una parola, il Regno di Dio, che è Lui stesso, sempre presente e vivo in mezzo a noi.

In termini semplici, questo è il grande tesoro che Gesù ha affidato ai suoi amici durante l’ultima cena, al termine della sua esistenza terrena. La parabola dei talenti insiste molto sulle predisposizioni interiori con le quali accogliere, custodire e valorizzare tutti i doni. Certamente l’atteggiamento sbagliato, e Gesù ce lo rivela chiaramente, è quello della paura e del timore, un atteggiamento che oscura la nostra fede; infatti, il servo che ha paura del suo padrone, temendone il suo improvviso ritorno, nasconde la preziosa moneta sotto la sabbia ed essa, ovviamente, non produce alcun frutto. Una tale situazione, purtroppo, si può verificare quando colui che ha ricevuto i Sacramenti nasconde poi tali doni sotto la sabbia di pregiudizi, sotto un’errata immagine di Dio che, ahimè, si costruisce da solo e che naturalmente arriverà a paralizzare sia la sua fede, sia le sue opere. Tuttavia, la parabola tende a far emergere i buoni frutti, quelli portati dagli amici di Gesù, dai suoi discepoli fedeli che, condividendoli e partecipandoli, non li hanno tenuti nascosti con paura e terrore ma li hanno fatto fruttificare. Capiremo la nostra identità di ‘servi buoni’ se ciò che Cristo ci ha consegnato poi si moltiplicherà donandolo agli altri. Quello di Gesù è un tesoro prezioso, consegnatoci dal Maestro stesso per essere speso, investito sapientemente ed, infine, condiviso con tutti, proprio come ci insegna l’Apostolo S. Paolo che, a pieno titolo, potremmo definire grande amministratore e custode dei talenti di Gesù. Nella seconda lettura (1Ts 5, 1-6) egli ci esorta ad essere non come quel servo pauroso che alla fine sarà gettato fuori nelle tenebre, ma come quei due servi buoni, figli degnissimi di quella luce che vuole illuminare chi “sta nelle tenebre e nell’ombra della morte” (Lc 1, 79).

L’insegnamento che scaturisce dal Vangelo di questa domenica ha certamente influito ed influisce anche sulla nostra dimensione storico-sociale, facendo sì che nel cuore dei tanti uomini di buona volontà e nelle popolazioni cristiane si irradiasse una mentalità attiva e intraprendente, al fine di valorizzare, diffondere e custodire un altro dono inestimabile, il bene comune, dimensione, soprattutto oggi, molto minata. Ma il messaggio centrale della Parabola guarda alla nostra responsabilità, quella che pratichiamo per accogliere il Regno di Dio, Gesù stesso, adesso, in questo preciso momento storico; una tale responsabilità, che liberamente sarà esercitata nel bene o nel male, farà cadere le sue conseguenze sul rapporto che ciascuno intesse con Dio e con l’uomo. Siamone sempre coscienti! Il discepolo di Gesù, secondo la concezione di S. Matteo, vive di fede: l’attributo “fedele”, infatti, è ripetuto quattro volte nel giudizio del padrone. Dunque, è sulla fedeltà e non sul ‘rendimento’ che sono giudicati i due servi, e non sono i talenti che contano, ma la fede dei discepoli. Matteo, guardando alla sua comunità cristiana vede tutte le resistenze che l’uomo, anche all’epoca, poneva alla fede: nonostante tutto, Dio continua ad offrirsi generosamente a chi l’accoglie con gioia. Un tale atteggiamento del cuore, libero e, nello stesso tempo, responsabile, lo ha incarnato mirabilmente la Vergine Santa quando ha accolto nel suo grembo Gesù, “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 44), il dono più grande che Lei stessa ha offerto al mondo con immenso amore. A Lei chiediamo di venirci incontro e di insegnarci ad essere come quei “servi buoni e fedeli”, perché, con Lei e come Lei, possiamo partecipare un giorno “alla gioia del Signore”. Amen.

Frà Frisina

Foto: it.123rf.com

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