“Slut Shaming” ovvero “quant’è facile giudicare”

00007513Dove c’è morale, prima o poi ne usciranno anche pregiudizi. Dove nascono pregiudizi, prima o poi ci saranno anche dita puntate. Dove ci sono dita puntate, usciranno altre mille persone che seguiteranno la tua argomentazione. Concordi con la tua idea. Concordi nei pregiudizi e in una morale ben affermata. E quando prendono corpo i giudizi negativi, la folla si anima e inizia a fare bullismo nei confronti della vittima. È il concetto di Slut Shaming.

Americano, tradotto in italiano è il pari di “l’onta della sgualdrina”. Lo slut shaming è compiuto da coloro che svergognano in pubblico e colpevolizzano la donna per i loro desideri sessuali. Quelle donne che si discostano da morali tradizionali o ortodosse. Coloro che violano il codice di abbigliamento socialmente accettato con minigonne e mini vestiti. E non sono poche le volte che le donne vengono criticate perché violentate o stuprate.

Ma di certo non è una novità. È dalla diffusione della religione che si addita il gentil sesso per l’inusualità di alcune azioni. Le si attribuisce subito la nomina di “donzella dai facili costumi!” oppure “ il suo letto ha conosciuto più amanti!”.

Prima del 1900, bastava andare in giro con un cerchietto nei capelli per esser considerata una sgualdrina. Ora basta mostrare la pancia incavata sui social. E peggiorano la situazione i selfies sexy. Ben truccata. Con un vestito, magari scollato e vertiginosamente corto. Ok, sei bollata, non te la scampi più. Con commenti al seguito molto creativi: “datele un guinzaglio.”, “a questa le lanci anche i croccantini e le fai i grattini tant’è cagna.”; i più banali “che baldracca!”; i più squallidi “che ti farei con quel vestito.” o “ se si vestono così vogliono solo essere sc*pate!”. Insomma, la cattiveria sembra quasi autorizzata sotto un certo genere di foto.

Critiche sessiste e non, anche dalle coetanee che non frenano la lingua. E, in difesa delle malcapitate, arrivano solo le drastiche femministe. Quelle che lottano fin dall’alba dei tempi per riuscire a eliminare il maschilismo e per dare davvero diritti paritari. Perché ogni donna possa sentirsi valorizzata, sotto ogni aspetto. Perché la donna non è un oggetto.

Non è merce di scambio. Non è una prostituta, né una suora. E può scegliere di comportarsi in tutti i modi che vuole, con il suo corpo. Può essere quella che vuole, perché “nel nuovo millennio, la libertà di scelta è anche questo.” Quest’ultima frase è un motto che prende seguito fin dal 1970 quando si formarono le prime vere femministe rivoluzionarie in quell’America in cui il mutamento era giornaliero.

femenE negli anni 2000 si è avuto un record di iscrizioni nelle associazioni femministe. E in molte sono le attiviste estreme, che si spogliano e si pervadono il corpo nudo di scritte. È il caso delle Femen, quella che all’inizio era nata come organizzazione no-profit per protesta contro la politica ucraina. Ma che oramai s’è diffuso in tutto il mondo. Generalizzando l’ideale dell’organizzazione, per far sentire la voce di ogni donna a seno nudo.

Oramai è una congregazione che è presente in tutto il pianeta. Persino in nazioni arretrate, in cui la donna non ha neanche diritto di parola. Come ad esempio nei paesi islamici, in cui le donne sono al servizio del proprio marito, del proprio padre o figlio e di tutti gli uomini che le circondano. E per chi commette un qualunque peccato, anche la più piccola pecca, ne seguita una severa punizione. Additata da tutto il popolo, inutile citare la lapidazione o l’impiccagione.

È il caso di Farkhund620150506143458a, la giovane donna afghana bastonata, malmenata, stuprata, per aver bruciato libri del corano. Ovviamente non ci sono prove della sua colpevolezza. Ma una volta poi percossa, è stata portata in piazza e arsa viva. Indicata dal popolo come blasfema. E il video dell’omicidio è pubblico, lo si trova sul web. Quasi come fosse normale, quasi come fungesse da lezione per le altre.

Nel mondo, dovunque ti giri, ci sono sempre tanti esempi negativi. Nei paesi più poveri come l’estremo Oriente o nella Thailandia, in cui lo sfruttamento e il maltrattamento della donna è a livelli vergognoso. Eppure tutto questo, non scandalizza. Non abbastanza. Non senza sapere che coloro che hanno il giudizio facile e il dito indice sempre pronto ad ammonire, sono gli italiani. Putt*na, baldr*cca, prostituta, c*gna, meretrice e tanti altri sinonimi sono le parole più utilizzare per condannare una donna in Italia. Ma basta un po’ d’inventiva e gli italiani per rimproverare ci mettono poco e molta crudeltà.

La penisola italiana è un paese in cui l’educazione sessuale è tabù e piena di cattolicesimo. Difatti la figura della donna è soggetta a regole rigide. Se una donna non si conforma al cliché di brava ragazza, è automaticamente una poco di buono. Se anche viene solo sospettata di libertinismo, subito vengono scagliate critiche appuntite come lame, senza neanche dare il tempo di smentirle. In certi casi è ritenuta meretrice una donna che a 40 anni vuole ancora sentirsi bella e cede alle avances di qualche giovane. O chi a 20 anni ha il coraggio di comportarsi come vuole. O chi a 30 non si sposa per scelta.

Per non parlare delle donne che hanno un marito o un padre padrone. Anche il patriarcato, per quanto non se ne parli, è fortemente ancorato in Italia. Padri che si sentono in diritto di cedere la propria figlia al socio d’affari. Mariti che segregano in casa la moglie con i figli. Chiudono la porta a chiave mentre vanno a vedere la partita al bar con gli amici. Ci sono ancora, e non vogliamo ammetterlo.

E poi rimaniamo tutti ad ammirare icone della televisione che dire vestite è quasi un complimento. Sì, quelle che sculettano. E pur sapendo che sono comportamenti che la collettività non DOVREBBE ritenere accettabili, le guardiamo lo stesso. E non critichiamo loro, ma le nostre vicine, cugine, amiche. Zitelle, vedove allegre. Perché?

Al centro di tutto questo vi è la società. Una società che non cresce, e rimane nella stessa legnosa mentalità, che è dannosa e per niente d’aiuto. No, non si migliora redarguendo. E come al solito, chiudiamo gli occhi quando ci troviamo davanti a situazioni difficili. Giriamo la testa per paura, per farsi gli affari propri, facendo finta di non essere impiccioni. Pensate non sia così?

Riportiamo diversi esempi. Ragazza, 13 enne. Torino. Stupro di gruppo, in un garage. Da parte dei suoi coetanei. La ragazzina, continua a farsi violentare poiché minacciata dai suoi compagni. Se si fosse ribellata, loro avrebbero reso pubblico il video delle violenze che subiva. Finalmente la 13enne, dopo due mesi di violenza inaudita, insorge. E i ragazzi, in tutta risposta, pubblicano il video, e si beccano una maxi denuncia dai genitori. Il quartiere, famiglie e famiglie che abitano uno accanto all’altro e che si conoscono, pur avendo scoperto tutto, hanno taciuto. Perché? “Perché sembrava normale. Come se la ragazzina ci andasse di sua spontanea volontà.” “Ne hai la certezza?” “No.” Così, la famiglia, tradita dai suoi stessi vicini, trasloca anche per evitare commenti purtroppo inevitabili.

E il moderno passa parola mediatico invade il web. Con parole volgari e piene di disprezzo: “Lei era consenziente.” – “Aveva due fidanzatini nel gruppo.” – “Che tr**a!”

Altro esempio, più recente. Cosenza. Donna, 25 anni. Universitaria. STRANIERA. Serata in un locale, un ragazzo le offre da bere. L’accompagna a casa e nel suo portone, la violenta. Lui ha la fedina penale sporca, pregiudicato, di famiglia mafiosa, che durante la violenza viene inquadrato da più telecamere. Dopo esser stato denunciato e portato in tribunale come imputato, la vox populi punta il dito anche contro di lei, la seconda imputata, dandole della prostituta. “è colpa sua: “È STRANIERA! Lui è un bravo ragazzo.” Se basta avere un accento e donna per essere indicata come prostituta…

E se questo non bastasse, un esempio più recente. Donna, sui 25 anni. Milano. Il primo Maggio. Dopo gli scontri, si fotografa in stile “me la tiro ‘na cifra” davanti ad una macchina riversa su un lato, bruciata. Come fosse un monumento importante. E’ la foto che è stato simbolo della fine della manifestazione del primo maggio. E sebbene la foto non sia stata delle più intelligenti, di certo l’esagerazione sta nell’insultare apertamente la ragazza con commenti come: “oh, che p****a!” “le brucio la f**a!”, “che tr****a!”. I commenti lasciano di stucco, tanto quanto sono senza parole le voci che hanno subito preso a girare. La ragazza è diventata, senza neanche saperlo, “sorella del ministro Boschi.”

boschiLa Boschi venne già etichettata in passato per il titolo ottenuto come ministra, per aver lavorato bene sotto la scrivania. E, pur non avendo nessuna certezza, rimangono voci fondate sulle stesse voci che girano. “Perché, secondo te, come fa una del genere ad avere quel posto?”. Ok, Italia. Se lo dici tu.

Certo, è facile giudicare. E anche molto più facile abusare di donne e bambine, trattarle come fossero meno di una pezza. Anche farlo per strada, tanto nessuno oserebbe fermare il tutto per paura di essere coinvolto. Però, in quanto testimoni oculari, siamo capaci di riprendere il tutto con lo smartphone, fare un video e postarlo su internet. Per sentire i nostri coetanei giudicare quasi quanto facciamo noi. Sentirli dare giudizi precisi su chi viene violentata. Con frasi come “ Te lo sei meritato. Ti vesti da vac*a.”. Quindi incolpare la vittima, e giustificare quasi l’aggressore.

Globalizzazione, G8. Onu, lotta per i diritti umani, uguaglianza e pari diritti. Noi italiani lamentiamo di essere circondati da gente poco onesta. Malintenzionata, priva di valori. Ma c’imbocchiamo di porcate viste in televisione. Usiamo stereotipi che ci hanno inculcato con l’educazione senza ragionarci su. Perché pensare con la propria testa non è di moda, ultimamente. Ci affidiamo alle frasi di circostanza tipo “perché è sbagliato” o “perché la donna è così che deve rispettare certi canoni.” e tanti cari saluti al rispetto per l’altro.

L’importante è che il dito indice funzioni bene per indicare la prossima Maria Maddalena. Continua così Italia, sei sulla buona strada.

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