Oggi no, domani chissà. Aspettando Godot

Il tema dell’incomunicabilità è un tema centrale nella letteratura del XX. Insieme a James Joyce, Virginia Woolf e Thomas Eliot, Samuel Beckett fu tra i più incisivi e influenti autori del modernismo inglese, probabilmente più di ogni altro in grado di illustrare attraverso immagini e silenzi il problema dell’incomunicabilità e della solitudine umana, e anche per questo ricordato come tra i maggiori esponenti del teatro dell’assurdo. Considerato per alcuni aspetti ‘tardo modernista’, per altri post-modernista, i più recenti studi accademici rivelano tuttavia che tentare di inquadrare l’autore in una o l’altra corrente renderebbe solo parzialmente la sua perizia artistica nel sovrapporre continuamente discorsi e caratteri sia del modernismo che del postmodernismo.

Il ‘geniale assurdo’ di Beckett

Samuel Beckett nasce il 13 aprile 1906 a Foxrock, vicino Dublino, in Irlanda. Brillante studente, perfeziona i suoi studi al Trinity College. Dopo una laurea in lettere moderne (francese e italiano), si trasferisce a Parigi, dove stringe rapporti con il poeta irlandese James Joyce, assorbendone influenze e stili. I suoi drammi – tra i più noti e singolari: “Waiting for Godot” (“Aspettando Godot”), “Breath” (“Respiro”) e “Not I” (“Non io”) – trasmettono l’assurdità dell’esistenza, l’impossibilità di esprimerci, di farci intendere e di intendere, imprigionati nella nostra solitudine.

Beckett, che era solito scrivere le sue opere in lingua francese e successivamente tradurle in inglese, ottenne un apprezzabile successo come romanziere e scrittore, tuttavia il prestigio internazionale arrivò con le sue opere teatrali. Lontane dai modelli più convenzionali di suspence ed intreccio che avevano caratterizzato le precedenti correnti, Beckett porta in scena l’assurdità, abbracciando l’indecifrabile coscienza umana nel suo esasperato quanto inevitabile individualismo. Attraverso le sue opere, Beckett è in grado di disorientare e sconvolgere il pubblico.

“Aspettando Godot” è l’opera più nota dell’autore. Scritto in lingua francese nel 195 e tradotta in inglese nel 1954, il dramma rappresenta eccellentemente e con spiazzante narrativa gli aspetti più caratterizzanti del meta-reale. Angoscia, paralizzante alienazione, impossibilità di comunicare e dialoghi surreali sono gli aspetti che accompagnano per intero il dramma tragicomico e i suoi protagonisti, Vladimir e Estragon, due vagabondi immersi in un ambiente freddo e senza tempo, divenuti emblema dell’assurdo.

“Breath” è una scioccante rappresentazione che in soli 35 secondi di riproduzione sonora riesce a mostrare il non-nulla della vita umana. Un mucchio di spazzatura, una luce fioca, il vagito di un neonato, seguita da un respiro amplificato, un grido accennato, infine il silenzio: sono gli unici elementi presenti nell’opera, tesi a riflettere la profonda indisposizione interiore dell’uomo. “Not I” è uno dei suoi ultimi drammi, anch’esso di brevissima durata e minimalista: in estrema sintesi, una bocca blaterante illuminata da un riflettore.

Turbamento

Dotato di una grandiosa capacità astrattiva, le opere di Beckett illuminano circa la realtà della vita e dell’esistenza, arrivando a quell’aspra conclusione secondo la quale routine e incomunicabilità sarebbero il cancro del tempo. In “Wating for godot” l’idea dell’eterna attesa di qualcuno o di qualcosa di misterioso è perfettamente resa dai due protagonisti, dall’ambiente nel quale vagano e dall’insignificanza dei loro dialoghi. Vladimir ed Estragon, chiamati anche Didi e Gogo, aspettano invano lungo una strada di campagna uno sconosciuto Godot che ha dato loro un appuntamento senza tuttavia dare indicazioni esatte sull’orario e sul luogo.

Anche il nome “Godot” ha dell’enigmatico ed è infatti oggetto di dibattito interpretativo: alcuni studiosi hanno ipotizzato che possa trattarsi dell’unione di “God” e “ot”, dove il suffisso francese “ot”, nel significato di “piccolo”, si riferirebbe alla dimensione del dio in questione; lo stesso Beckett tuttavia in un’intervista dichiarò di rifiutare questa lettura. Secondo un’altra interpretazione, il nome del personaggio sarebbe invece da intendere in lingua inglese, come composto di “go” e “dot”, letteralmente “vai” e “punto”, per cui si potrebbe pensare all’intenzione di rimarcare la “paralisi” degli autori, l’impossibilità di scegliere, di essere fautori della propria vita, della propria quotidianità, pertanto il senso di frustrazione che ne deriva.  

Il primo atto si chiude con l’arrivo di un ragazzo, messaggero di Godot, il quale si scusa per l’assenza di quest’ultimo, garantendo tuttavia che l’indomani egli arriverà. I vagabondi, stanchi, infreddoliti, esasperati dalla fame, dalla vana attesa e dal dolore, pur arrivando anche a prendere in considerazione l’ipotesi del suicidio, non fanno nulla per cambiare la loro condizione: si perdono continuamente in conversazioni irragionevoli e incoerenti, litigano, concludono che forse l’unica soluzione possibile sia quella di separarsi, ma ciò non avviene mai. Difatti nessuna delle conversazioni tra i due protagonisti conduce ad un’azione o ad un cambiamento.

Comunicare il nulla

“Aspettando godot” non ha una vera e propria trama, non ha un inizio né una fine. Sebbene la commedia sia suddivisa in due atti, si tratta effettivamente di un’unica situazione: due vagabondi attendono l’arrivo di un lui misterioso, sperando che egli possa fornire loro un pasto caldo e un posto all’asciutto. Oltre a Didi e Gogo, vi sono altri due personaggi minori nel dramma, impegnati in un rapporto tirannico ‘servo-padrone’: Pozzo, un proprietario terrierio, e Lucky, il suo servitore, quest’ultimo tenuto al guinzaglio dal primo.

I due atti sono comunque costruiti simmetricamente tra loro: il palco è diviso in due metà da un albero, le razze umane in due, ovvero Didi e Gogo, successivamente in quattro, Didi-Gogo e Pozzo-Lucky, poi di nuovo in due con l’arrivo del ragazzo inviato da Godot, pertanto l’umanità da un lato e colui che rappresenta “l’ente superiore” dall’altro. Anche le azioni dei personaggi sono messe in scena in modo simmetrico: durante la commedia Estragon tenta di togliersi le scarpe, mentre Vladimir si toglie il cappello, entrambi scrutano all’interno dei loro oggetti per pensare e potersi esprimere; Lucky e Pozzo fanno invece il contrario – Lucky ha bisogno del cappello per poter pensare.

Didi e Gogo non vengono mai descritti come due mendicanti: sono semplicemente due esseri umani, perennemente tormentati da domande esistenziali, sul mondo, sulla propria vita e sul misterioso Godot. Sono due identità complementari: Vladimir è un uomo pragmatico, non è solito sognare, accetta di aspettare senza troppo lamentarsi, egli è certo che Godot arriverà; Estragon, all’opposto, è un sognatore e vittima di incubi ad occhi aperti, spesso scettico in merito a Dio e al mistero di Godot, lamenta continuamente di persone che lo picchiano durante la notte. Inoltre, Estragon non riesce a ricordare nulla del suo passato, mentre Vladimir diffida di ciò che ricorda. Estragon ha bisogno che sia il suo amico a raccontargli della sua storia; nello sforzo di ricostruire e narrare ciò che insieme hanno compiuto, vi è una sorta di velato riconoscimento dell’utilità di Estragon da parte dell’amico Vladimir. Per ragioni diverse, dunque, ciascuno di loro funge da sostegno e continuo rimando all’altro in merito alla propria esistenza.

Aspettare chi? e per quanto?

Beckett usa il linguaggio come barriera della comunicazione, egli priva la parola della sua funzione comunicativa. Le frasi hanno perso ogni significato logico e sono diventate solo un modo per passare il tempo. Sebbene non vi sia dimensione passata né futura, il concetto del tempo è un tema fondamentale in Beckett e in quest’opera in particolare, reso come attesa perenne, quindi esempio di “assurdità”.

La vita, misteriosa e incomprensibile, è riprodotta nel linguaggio di Beckett attraverso il silenzio, dialoghi brevi e privi di significato, attraverso la struttura ripetitiva e circolare del passato. In “Waiting for godot” non c’è uno sviluppo temporale, solo un presente ripetitivo. Non c’è ambiente, non esiste uno scenario, solo una strada di campagna e un albero spoglio, un salice piangente privo di foglie. Non c’è azione; la situazione è statica, tutto si compie nell’attesa. Non c’è dialogo perché i protagonisti non riescono a capirsi, a fornirsi informazioni utili, si pongono domande creando un’atmosfera grottesca e umoristica, per poi tornare ad aspettare e a fare ipotesi, senza tuttavia muoversi, senza progressi.

L’attesa conclude l’intera opera, esattamente come nell’attesa si era chiuso il primo atto. Vladimir ed Estragon continuano invano ad aspettare il loro Godot, tornando sullo stesso posto anche il giorno successivo, e quello dopo ancora; di nuovo il ragazzo si presenterà portando le scuse di Godot e comunicando loro che egli sicuramente verrà il giorno dopo. Confondere il tempo è la loro principale occupazione, nell’attesa che un Godot arrivi.

“Allora? Andiamo?”, sollecita Vladimir.

“Andiamo”, risponde Estragon.

Non si muovono.

Foto di Pexels da Pixabay

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