Marcel Proust:  il tempo perduto e il ricordo ritrovato

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In Dalla parte di Swan (1913), primo libro di A la recherche du temps perdu (Alla ricerca del tempo perduto), Marcel Proust parla di uno «stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica», ma solo «l’evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva». Si tratta di uno stato emotivo totalizzante che assume le sembianze di un «piacere delizioso». Una «gioia violenta» che avvolge il protagonista al momento in cui porta «macchinalmente» alle labbra un cucchiaio di tè in cui aveva inzuppato un pezzo di quelle «schiacciate pienotte e corte» chiamate madeleine

Il “piacere delizioso” e la ricerca del tempo perduto

E così da un gesto qualunque e da un sapore semplice scaturiscono alcune delle pagine più belle e famose della Recherche. Qui Proust ricostruisce magistralmente cosa accade in quei rari momenti in cui una sensazione antica riporta alla luce la memoria del passato e consente di recuperare almeno un frammento di tempo perduto. Si tratta di eventi casuali, irrazionali e fondamentali nella vita di un individuo. Ritrovare il tempo per Proust significa appropriarsi della verità che giace al fondo di noi stessi, l’unica realtà autentica, quella che ci sottrae addirittura dalla morte perché improvvisamente assorbe tutta la nostra esistenza in un attimo di eternità.

Infatti scrive: «nel momento stesso in cui quel sorso misto di briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della causa. M’aveva reso indifferenti tutte le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l’amore, colmandomi d’un’essenza preziosa: o meglio, quest’essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di essere mediocre, contingente, mortale». E aggiunge: «Donde m’era potuta venire quella gioia?».

La ricerca e l’intuizione

A questo punto l’io narrante cerca di risalire all’origine della sensazione per interpretarla. Ripete il gesto che l’ha attivata ma sente che l’effetto del tè misto a briciole di madeleine diminuisce sorso dopo sorso. La ricerca è difficile, soprattutto se si pensa di condurla con l’impiego della razionalità. La logica allontana la verità perché la verità si colloca al di fuori della sua giurisdizione. Non siamo nella sfera della memoria volontaria per mezzo della quale l’intelletto sceglie cosa rispolverare. Qui si tratta di memoria involontaria: un labirinto di frammenti di competenza del cuore.

Per sondare gli abissi dell’animo umano serve attendere l’intuizione intesa in senso bergsoniano: un’illuminazione immediata densa di senso. Ed è proprio quando l’io narrante rinuncia a cercare l’origine del «piacere delizioso» che il passato legato al sapore del tè e delle madeleine riemerge nella sua mente. «E ad un tratto il ricordo m’è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di “maddalena” che la domenica mattina a Combray […], la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio». Si tratta di un ricordo liberato, come le anime dei cari perduti di una certa credenza celtica. Anime che, rinchiuse nella prigione di un corpo animale o vegetale, non aspettano altro che incontrare per caso i propri vivi, essere riconosciute da loro e tornare a far parte del loro presente.

Foto di Pexels da Pixabay

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