La pesantezza e il valore dell’ Es muss sein 

La pesantezza

Un certo signor Dembscher doveva restituire a Beethoven cinquanta fiorini e il compositore, che aveva bisogno di soldi, glielo ricordò. «Muss es sein?» (Dev’essere?) chiese allora Dembscher. «Es muss sein!» (Dev’essere!) rispose Beethoven. Poi il compositore annotò quello scambio di battute sul suo taccuino e su di esso scrisse una piccola composizione per quattro voci. L’anno successivo lo stesso motivo diventò la base del quarto movimento dell’ultimo quartetto dell’op.135. Ma ormai quell’imperativo non aveva più niente a che fare con i cinquanta fiorini: era diventato la voce del destino.

Leggerezza, pesantezza e destino

A narrarci questa storia è Milan Kundera nel suo romanzo più famoso, L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984). Un libro di opposti in cui i contrari scivolano continuamente gli uni negli altri, scambiandosi i ruoli, suscitando domande e rivelando la doppia natura delle cose. L’opposizione fondamentale è quella tra leggerezza e pesantezza. Queste categorie vengono valutate nell’orbita del destino inteso come missione. Se per il filosofo Parmenide tra i due termini la pesantezza è il polo negativo e la leggerezza il polo positivo, Kundera con l’esempio di Beethoven ribalta completamente questa teoria. 

Passando dall’essere uno scambio di battute all’incarnazione della voce del destino, l’imperativo ha acquistato pesantezza e dunque valore. E allora ecco che il senso dell’«Es muss sein!» viene a coincidere con quello di un’altra frase dello stesso quartetto: «Der schwer gefasste Entschluss», ovvero la grave risoluzione. È difficile decidere di accettare e perseguire le missioni a cui il destino ci chiama, ma è l’unico modo per pesare e in qualche modo eternizzarsi. Solo così si può sfuggire al destino di leggerezza dell’essere che è insostenibile perché prevede che le cose accadano una sola volta e mai più («Einmal ist keinmal»).

La missione di Tomáŝ

Kundera afferma che: «La grandezza di un uomo risiede per noi nel fatto che egli porta il suo destino come Atlante portava sulle spalle la volta celeste». Ma portare sulle spalle il proprio destino non è un’impresa facile. Non a caso la storia di Tomáš e Tereza comincia con Tomáš che sta «alla finestra del suo appartamento, gli occhi fissi al di là del cortile sul muro della casa di fronte, che non sa cosa deve fare». È nel momento chiave della sua esistenza: accettare la responsabilità dell’amore e della vita di Tereza oppure continuare a essere leggero e fare a meno di assumersi la missione eroica che potrebbe iscriverlo nella mitologia del mondo?

Tereza è una cameriera dal passato difficile che nell’amore per Tomáš cerca la salvezza. E Tomáš la iscrive immediatamente in una metafora: «Non era né un’amante né una moglie. Era un bambino che lui aveva tirato fuori da una cesta spalmata di pece e aveva adagiato sulla riva del proprio letto». Molte storie cominciano con il salvataggio di un bambino abbandonato. Si pensi al biblico Mosè e all’Edipo di Sofocle, personaggi immortali che rendono immortale tutto ciò che è coinvolto nella loro vicenda. Doni del destino per chi li ha trovati.

L’amore comincia con una metafora

Rispetto a tutte le altre amanti in Tereza non c’è niente da svelare, c’è solo la chiamata a un’impresa epica: il salvataggio di un’anima innocente, l’ennesima rappresentazione di un archetipo che si proietta nell’eternità tramite una varietà infinita di accostamenti metaforici. Da qui l’affermazione: «L’amore comincia con una metafora. In altri termini: l’amore comincia nell’istante in cui la donna si iscrive con la sua prima parola nella nostra memoria poetica».

E così Tereza — incontrata grazie alla concatenazione di ben sei casualità — si trasforma nella donna inviata dal destino («Es muss sein») per essere salvata e così salvare Tomáŝ dall’insostenibile leggerezza dell’essere. Il legame che i due stabiliscono è di necessità reciproca, di compassione intesa nel senso etimologico di comunanza di dolore. Tomáŝ sente il dolore di Tereza anche quando sono lontani e allora non può fare a meno di raggiungerla, di salvarla sempre. Kundera parla di compassione come di «telepatia sentimentale»: quasi una maledizione che porterà  Tomáŝ a lasciare il suo buon posto di lavoro in una clinica svizzera per seguire Tereza in una Praga povera di prospettive e dilaniata dalla guerra.

La compassione, la disperazione e la salvezza

L’eroicità di questo gesto d’amore sussiste solo in nome dell’imperativo «Es muss sein». Se questo viene meno o si rovescia nel suo contrario («Es könnte auch anders sein», ovvero poteva anche essere altrimenti), il gesto eroico si trasforma in una stupidaggine immane. Così in luogo della compassione nasce la disperazione perché ci si rende conto di essersi sacrificati per nulla. Una disperazione che prende la forma dell’amore leggero, che poteva essere come no, e che ci apre al rimpianto per tutte le infinite possibilità che non si sono realizzate. È da questo rimpianto disperato che l’Es muss sein ci salva perché fa dell’amore della nostra vita qualcosa senza cui la nostra esistenza non sarebbe la nostra esistenza.  

Foto di Luca da Pixabay

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.