Inside Out, un altro capolavoro dalla Disney

1431981084_inside-out-conducira-extraordinario-interiortinima2015051806965Era il 2006 quando la Disney inquadrava una nuova collaborazione con la Pixar, casa grafica che ha fatto un grande affare a fare film con la Disney.

Quello che ne esce fuori ogni volta da queste collaborazioni è sempre qualcosa di stupefacente e per niente mediocre. Pensavamo avessero raggiunto il culmine con Toy Story, poi c’è stato “Alla ricerca di Nemo” e altri grandi nomi come “Gli Incredibili”, “Dinosauri”, “Rapunzel”, “Ralph spaccatutto” e tentando di premere i tasti giusti sul suo pubblico, ora ha sfornato un altro capolavoro con “Inside Out”. Dal genio di Pete Docter e Ronnie Del Carmen, già autori di altri titoli Pixar come Monsters & co., Wall-e, Up, è il film più acclamato dell’anno.

Presentato al Festival Di Cannes il film parla di una bambina, Riley e delle sue emozioni causate dal trasferimento per il lavoro del papà dal Minnesota a San Francisco. Cosa succede ad una ragazzina di 11 anni quando cambia casa, scuola, amici? Entra in crisi. Ed il film è ambientato per gran parte nella sua testa dove Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto, comandando dal centro della testa della bimba da una plancia di comando. Per un errore, Gioia e Tristezza si perdono nella vastissima mente della ragazzina, lasciando il comando a Disgusto, Rabbia e Paura che ci mostrano cosa succede nella testa della protagonista quando le sue emozioni (negative) prendono il sopravvento. La storia racconterà della piccola Riley che vuole ritornare a casa, sottolineando il suo passaggio molto mascherato dall’infanzia all’adolescenza. Parallelamente si svolgerò la storia del ritorno di Gioia e Tristezza al quartier generale. Queste ultime, riusciranno nell’intento solo dopo aver scoperto quanto contino l’uno per l’altra.

Non c’è niente di cui stupirsi: quelli della Pixar sono dei geni, nessun dubbio a riguardo. I registi forse i più bravi e creativi della Pixar, Pete Docter e Ronnie Del Carmen, hanno avuto un modo tutto particolare e delicato, ma anche infantile, per raccontare i sentimenti. Dà loro una forma astratta e sposta il confine del racconto di animazione sempre più in là a ogni film. E’ una pellicola che sul serio riesce a prendere ogni tipo di pubblico: per i piccini, divertendosi con i personaggi che riescono a trascinare; per gli adolescenti, coloro che hanno abbandonato l’infanzia da poco (a livello anagrafico), che riescono a ricordarsi ancora il loro amico immaginario; ma anche per gli adulti, per far rivivere il bambino che è dentro ognuno di noi, rivedendo se stessi qualche anno prima. Anche in questo, il pubblico reagisce al film a seconda dell’età e delle esperienze, ma non sono rimasti colpiti solamente dalla semplicità con cui i registi sono riusciti a districarsi nel complicato processo che è la fisiologia del cervello, spiegando le strutture della psiche a livello così elementare che rende questo film, come molti altri precedenti, un capolavoro pixariano.

Questo film è tanto acclamato soprattutto perché fa cadere un altro stereotipo cinematografico secondo cui la gioia deve essere il sentimento primario nel film. E’ una rivoluzione filmica, soprattutto perché fino ad ora, sentimenti del genere, venivano utilizzati (per quanto riguarda i film Disney), anche per sottolineare le romantiche storie d’amore finite male in una fatti specie del romanticismo narcisista e decadente. Il film parla di EMOZIONI. Finalmente una pellicola in cui ti fa capire cosa c’è dietro ogni emozione, come non ci potrebbe essere felicità senza tristezza, che anzi ci potrebbe essere felicità anche lì dove c’è tristezza, ma non quella tristezza piena di lacrime e basta. Una tristezza riflessiva, che ti porta poi a momenti di turbamento. Nel film è così palese che ti porta anche a commuoverti per quanto sentimento c’è dietro, diventando un vero e proprio cocktail d’emozioni. E’ sottile la precisazione che ci sottolinea com’è sottile la linea che divide l’infanzia e l’adolescenza. Quelle fasi in cui ci si abbandona facilmente la gioia dell’infantilità che ci fa emozionare per un gelato o per un cane che scodinzola, al momento in cui s’incontrano nuove sfumature di emozioni, anche negative. Queste formano tanti tasselli da incastrare nel mosaico della vita e questo mosaico si intitola “crescere”.

Altra tematica non banale nel film è che Inside out non ha l’ombra di dio: si racconta solo di tutto ciò che c’è dentro di noi, che siamo l’insieme delle esperienze che facciamo e che ci fanno diventare quello che siamo.

Per quanto riguarda la parte scenografica, i due registi sono stati messi assieme ad un’intera squadra creativa che fa un lavoro di spessa misura umana. Squadra già vista ne “Alla Ricerca di Nemo”, “Up”, e “Wall-e”, dal punto di vista grafico il lavoro scenico viene curato ogni volta con molta precisione e dettagli sempre più accurati, come il meccanismo di creazione di ricordi nella testa della bimba che viene disegnato con assoluta semplicità e non in maniera meccanica, ma con creatività semplice. Inoltre, i personaggi plasmati danno l’idea proprio dell’emozione che rappresentano, e sono delle personalità semplice e tuttavia molto complesse da mettere insieme. Niente di banale c’è in questo film, niente di già visto, perché finalmente qualcuno ha pensato bene di rendere le emozioni “concrete” tangibili. E’ tutto questo che fa del film una pellicola che non ti stancheresti mai di vedere.

Se riflettiamo sui film di animazione prima dell’arrivo della Pixar, per forma, linguaggio e scenografia, ci rendiamo conto di quanto potenziale abbia avuto questa casa produttrice, ma che solo ora abbia davvero usato i propri mezzi con questa determinazione. Questo film è un altro capitolo di questo percorso di eccellenza, successo e avanguardia in contemporanea: una rarità che merita di essere apprezzata perché è difficile riuscire a fare storie con l’emozioni e fare emozioni con le storie.

di Anna Porcari

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