Il senso del tatto e la meraviglia

meraviglia

«Chiuso nell’ampio e ben capace seno/è quel giardin dela maestra torre,/degli altri assai più spazioso e pieno/di quante seppe Amor gioie raccorre». Siamo tra le pagine del poema Adone (1623), l’opera letteraria in versi più estesa della letteratura italiana. Qui Giovan Battista Marino introduce il lettore tra gli artifici del giardino del tatto. È l’ennesimo luogo edenico della letteratura: ci sono gli uccelli che cantano, i ruscelli chiari e trasparenti, i fiori e tutti gli stilemi tipici del Paradiso terrestre. Ma con una differenza: dopo tanti giardini percorsi da donne angelicate e irraggiungibili, Marino ci prospetta una «liberissima esaltazione della vita sensuale e dell’erotismo» («Non fu mai d’atto molle osceno oggetto/ che quivi agli occhi suoi non si dipinga»).

L’amore e il giardino dei cinque sensi

L’amore sensuale fa da protagonista a tutta l’opera. Una «favola angusta» composta da una trama esile che regge una gran quantità di episodi collaterali che dilatano la storia all’inverosimile. Protagonisti della storia sono la dea Venere (simbolo dell’eros e della bellezza) e il bell’Adone (personaggio mitologico nato dall’unione incestuosa di re Ciniro con la figlia Mirra e simbolo della bellezza maschile). I due si innamorano, ma il geloso Marte provoca la morte di Adone facendolo attaccare da un cinghiale. Venere, addolorata, allestisce per lui fastose esequie e trasforma il cuore dell’amato in un anemone, fiore che simboleggia l’amore di breve durata.

Prima del triste epilogo però Adone e Venere riescono a farsi unire in matrimonio da Mercurio. Succede proprio nel giardino del tatto: la parte più bella del giardino dei cinque sensi. Il giardino dei cinque sensi è collocato in corrispondenza del palazzo di Venere, sull’isola di Cipro. Attraversando i giardini della vista, dell’odorato, dell’udito e del gusto, Adone compie un percorso di educazione sensoriale che culmina nell’esperienza tattile. Per Marino infatti non è più la vista, ma il tatto il senso privilegiato per acquisire il sapere e fare esperienza del mondo.  

È del poeta il fin la meraviglia

Descrivendo il senso del tatto, l’autore afferma che: «Ogni altro senso può ben di leggiero/deluso esser talor da’falsi oggetti;/questo sol no loquar sempr’è del vero/ fido ministri, e padre de’ diletti. Gli altri, non possedendo il corpo intero,/ ma qualche parte sol, non son perfetti; questo, con atto universal, distende/ le sue forze pertutto e tutto il prende». Il tatto, dunque è veicolo di conoscenza perché investe tutto l’organismo umano, lo domina interamente e non può essere ingannato. Al contrario, gli altri sensi sono incompleti perché riguardano solo una parte del corpo e sono soggetti alle illusioni. Eppure l’illusione, la preziosità e l’artificio sono i principi su cui poggia l’intera opera di Giovan Battista Marino. D’altronde era proprio lui che nella Fischiata XXXIII della Murtoleide pronuncia la famosa frase «è del poeta il fin la meraviglia». 

Una meraviglia che tutto sommato poggia sull’inconsistenza dell’artificio. Come scrive Giovanni Getto in Introduzione al Marino: «Non hanno vita i protagonisti. Inconsistente è la loro realtà fisica, non meno del loro profilo d’anima. […] in compenso vi interviene una profusione di cose e di parole, di realtà naturali e di testi letterari, di cose viste e di riminiscenze poetiche». Dominano la moltitudine e la ridondanza che danno l’illusione della ricchezza e suscitano lo stupore del lettore. Tuttavia, come afferma Edoardo Sanguineti in I giardini di Adone, si tratta di «una funerea esposizione di nature morte, letterariamente rinsecchite e elegantemente impagliate», sintomi dell’inquietudine di un’epoca — quella barocca — segnata da profonde trasformazioni. 

Foto di Simon Berger da Pixabay

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