Il fritto fa male?

fritto

«Ma indove sta? ‘Ndo’ è annato er sor Grispini, er friggitore, er re de li “pezzetti”, fior de cucuzza, baccalà in filetti? Nun ce sta più pe’ Piazza Barberini. Ce dava robba jotta: broccoletti, supprì, patate, scombri e lattarini, trijette, gamberetti e pescettini freschi ancora de mare, o merluzzetti».

Nei versi della fine del 1800 di Amilcare Pettinelli v’è tutto il rimpianto per una parte di Roma, e probabilmente d’Italia, scomparsa: quella dei friggitori.

Ora una friggitoria sarebbe impensabile nell’elegante Piazza Barberini, dominata dalla Fontana del Tritone di Gian Lorenzo Bernini e snodo tra la Roma secentesca e l’area di Via Vittorio Veneto divenuta, negli anni della dolce vita, uno dei salotti di Roma.

A Roma le friggitorie alla «sor Grispini», sono sparite tutte: qualche buon fritto si può ancora mangiare in trattoria, in pizzeria, più frequentemente nei locali che cucinano il pesce fresco, l’alimento che, più di ogni altro, è rimasto legato a questa tecnica di cottura.

Difficile adesso immaginare che a Roma, come testimoniano i racconti di viaggio e le stampe d’epoca, fossero praticamente in ogni quartiere, in locali spesso angusti o maleodoranti o ancora più frequentemente in strada dove si riunivano gli avventori di ogni ceto ed ogni provenienza in quella che l’intellettuale francese Amédée Achard definì: «una famigliarità inesplicabile» ai suoi occhi aristocratici «mostruosa»: «Ho veduto davanti al banco di un friggitore all’aria aperta [situato probabilmente nel rione di Sant’Eustachio ndr] comprare e mangiare dei pesciolini serviti sopra una foglia di vite un soldato, un pastore, un prete, un signore in abito nero, un cappuccino, un operaio, una nutrice, un mulattiere e due o tre cittadini in marsina. Essi gustavano il loro fritto e discutevano amichevolmente dei suoi meriti».

A Roma come a Napoli, Catania, Palermo, Genova, Bari, Venezia, Ancona con una vocazione prettamente cittadina come si addice al cibo di strada, e ancor più marcatamente marinara.

Sparite quasi tutte le friggitorie o sopravvissute sotto mentite spoglie di locali alla moda, di menù alternativi anche se la pizza fritta, come quella preparata dalla prorompente Sophia Loren de «L’oro di Napoli», non ha nulla da invidiare a quella cotta in forno.

La frittura nella cucina italiana

Come spesso accade per molte preparazioni culinarie le origini di questa tecnica di cottura che prevede l’immersione di un qualsiasi ingrediente in una sostanza grassa bollente, sono incerte e si assiste ad una certa tendenza alla retrodatazione con questo vezzo tutto culinario di cercare patenti di nobiltà nella cucina degli antichi.

Si legge di origini greche o addirittura egizie e si citano versi di Marziale di dubbia interpretazione.

Ha probabilmente ragione Sergio Grasso che nel suo «La Storia Del Fritto? Troppi Miti!» collega la frittura al vasellame metallico, il solo in grado di trasmettere alla materia grassa le alte temperature necessarie, e ai grassi animali che secondo Grasso sarebbero stati nella cucina magrebina quelli ricavati dalla coda delle pecore, chiarificati e deodorati «secondo tecniche già note nel VI sec. a.C. ai persiani che avevano appreso la tecnica della frittura dai cinesi».

È allora alla cucina cinese, la sola che ha inventato uno strumento, il wok, specifico per la frittura e la prima ad utilizzare grassi di origine vegetale: olio di semi di soia, di sesamo, di canapa, che occorre rivolgere lo sguardo per comprendere le origini della frittura ed è logico ipotizzare che la contaminazione con la cucina occidentale si sia realizzata attraverso le solite direttrici: quella della via della seta e della penetrazione araba in Europa.

Per avere una reale diffusione della frittura nella cucina italiana occorrerà attendere qualche secolo: è tra la fine del Medioevo e la metà del Rinascimento, infatti, che il fritto si è diffuso nella cucina popolare per arrivare a quella colta solo tra la fine del 1700 e la metà dell’800 in cui si è registrata la sua esplosione attestata dai testi culinari di Corrado, Cavalcanti e Leonardi nei quali si frigge praticamente ogni alimento dolce e salato: dalla carne, sia nei tagli nobili sia nelle interiora, al pesce di piccola taglia, ai crostacei, ai molluschi comprese le ostriche, dalle verdure, al naturale, infarinate o «in pastina» (quella che noi chiamiamo pastella) ai dolci con tutto un proliferare di frittelle di ogni fattura.

Immancabile in quasi tutte le preparazioni il pane fritto che accompagna piatti di carne, di verdure, zuppe e minestre.

Non poteva mancare una sorta di geografia culinaria anche nel fritto ricostruibile in base ai grassi di frittura che venivano scelti in base alla loro disponibilità anche perché, in mancanza di adeguate tecniche di conservazione refrigerata, i grassi tendevano facilmente all’irrancidimento.

Abbiamo così un’Italia che frigge nel burro e che si colloca nelle regioni alpine e in Lombardia, una che frigge nello strutto e che ha il suo centro in Palermo dove gli Spagnoli ne avevano fatto una vera e propria industria con prodotti esportati in tutti i Paesi sotto la loro influenza e che da Palermo si diffonderà in Emilia grazie agli allevamenti consistenti di maiali e, per contiguità culinaria, a Napoli, e infine un’Italia che frigge nell’olio d’oliva e che ha i suoi osservanti a Roma, in Toscana ed il Liguria e quindi nelle cucine in cui l’olio d’oliva era già prevalente.

È il grasso di cottura che fa la differenza

Nella frittura, forse più che in altre tecniche di cottura, domina il principio di appropriatezza.

A differenza della bollitura, nella frittura, come accade nella brasatura (che si può anche intepretare come un frittura con una quantità minore di sostanza grassa) la sostanza che fa da mezzo di trasmissione del calore e che quindi materialmente cuoce l’alimento entra nell’alimento stesso e ne ne condiziona il gusto e le proprietà organolettiche.

Una cotoletta alla milanese è realmente tale solo se è fritta nel burro chiarificato, uno gnocco fritto emiliano smarrisce la sua natura se non è fritto nello strutto, un wonton cinese va fritto rigorosamente in olio di semi.

Per tutte le altre fritture, soprattutto quelle di verdure ed il pesce, l’olio extravergine di qualità non ha rivali.

Ne era già consapevole alla fine del 1700 Francesco Leonardi, una vera star culinaria della sua epoca, quando ne «Il cuoco galante» affermava: «per toglier ogni falsa idea dell’olio, dico, ch’esso è un grasso vegetabile incorruttibile estrailo dalle olive, e quando è fatto a tempo, e ad arte è molto meglio, nell’uso alla cucina, del grasso di animale, cioè della sugna, e del butirro, che con faciltà si corrompono».

Pochi anni dopo Ippolito Cavalcanti, il padre della cucina napoletana, volle smentire il luogo comune che vedeva nello strutto il protagonista della frittura partenopea e mettendo a confronto strutto ed olio in frittura affermò senza esitazione che i fritti «sono migliori con oglio» e che l’olio doveva essere «il più ottimo».

Gli fece eco a Roma Giuseppe Gioachino Belli, che cuoco non era, ma buongustaio sì, che nel suo sonetto «Li connimenti» affermava: «Sì, è bbona la cuscina co’ lo strutto; Anzi lo strutto er barbiere m’ha ddetto Ch’è un connimento che ffa bbene ar petto Come fa er pepe c’arifresca tutto. S’addatta a li grostini cór presciutto… Ar pollame…, a l’arrosto de lommetto… A lo stufato…, all’ummido…, ar guazzetto…; Ma addoprallo in ner fritto è un uso bbrutto. Vòi frigge er pessce co’ lo strutto?! Eh zzitto. Er pessce-fritto in nell’òjjo va ccotto: L’òjjo è la morte sua p’er pessce-fritto. Che mmaggnà da stroppiati! io ne sò mmatto. E gguarda er Papa, che davero è jjotto: Ce se lecca li bbaffi com’un gatto».

Guarnire le fritture

Nella contemporanea cucina instagrammabile per servire il fritto è ormai quasi obbligatorio l’uso del cuoppo, il cartoccio di carta paglia utilizzato per dare un tocco di rusticità al piatto.

Sono invece scomparse, o sono comunque ritenute poco eleganti per non dire dozzinali, le guarnizioni con prezzemolo fritto (il petrosemolo del Vincenzo Agnoletti de «La Nuovissima cucina economica» del 1814) e soprattutto quelle con gli spicchi di limone.

Eppure Pellegrino Artusi ne «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» affermava che «l’agro sui fritti che non sono dolci, dà sempre grazia, ed eccitamento al buon bere», mentre pochi anni dopo il compendio artusiano ne «L’Arte della cucina», edito da Salani nel 1917, si legge che «i Fritti bisogna aver cura di servirli molto caldi, o aggiungere intorno al vassoio alcuni spicchi di limone ben tagliato di cui si serviranno coloro che lo gradiscono».

Quindi non vergognatevi di portare in tavola i vostri fritti su di una guantiera e con gli spicchi di limone: potrete mettere a tacere i detrattori affermando che li state servendo «all’Artusi» che è un argomento che funziona quasi sempre.

L’olio di semi

Anche se le sue origini in America ed in estremo oriente sono antichissime l’olio di semi si è affacciato sulle tavole degli italiani, soprattutto come alternativa agli altri grassi di frittura, solo negli anni del boom.

Il primo olio di semi vari confezionato in Italia è stato il «Topazio» prodotto nel 1957 dalla Chiari & Forti di Treviso, che già alla fine della seconda guerra mondiale lo vendeva sfuso e che ebbe l’intuizione di proporlo in lattina da litro. L’anno successivo, nel 1958, l’industria olearia della famiglia Costa di Genova ha prodotto il primo olio di semi d’arachide interamente italiano e l’ha commercializzato, sempre il lattina da litro, con il marchio «OiO». L’olio di semi di girasole, prodotto essenzialmente nei Paesi dell’Est europeo, è arrivato qualche anno dopo così come gli oli di mais, di soia, di colza e di palma.

Da allora, complici i bassi prezzi rispetto all’extravergine d’oliva e la praticità delle confezioni, è iniziata una proliferazione di oli tipicamente orientati alla frittura tutti tendenti ad assicurare il massimo «punto di fumo» cioè la temperatura massima a cui può giungere il grasso di cottura senza determinare il suo decadimento e la produzione di sostanze tossiche.

Il «punto di fumo»

Sul «punto di fumo» vale spendere qualche parola perché, pur essendo diventato negli anni un potente strumento di persuasione commerciale a favore dell’uno o dell’altro dei grassi di frittura, è praticamente impossibile districarsi tra informazioni spesso contraddittorie giustificate in massima parte dal fatto che la sua determinazione avviene su base teorica mentre in pratica è fortemenente condizionata dalle caratteristiche specifiche del singolo prodotto.

Oli di semi dall’alto «punto di fumo» teorico spesso si rivelano inaffidabili in frittura: quando l’olio inizia a «fare la birra», cioé a formare quella schiuma giallastra che lo ricopre, non c’è soluzione: bisogna aspettare che si raffreddi e gettarlo anzi smaltirlo nei contenitori appositi o nelle isole ecologiche.

Un olio extravergine d’oliva non filtrato anche se appare alla vista più naturale, decade per ovvi motivi più rapidamente di un olio di semi soprattutto se quest’ultimo è stato trattato chimicamente, ma un olio di semi che decade a metà cottura, oltre a rovinare la frittura smentisce anche la sua supposta convenienza soprattutto ora che, anche grazie alla crisi Ucraina, la forbice tra il prezzo di un buon extravergine d’oliva, che non deve essere necessariamente il top di gamma, ed un ottimo olio di semi si è ridotta considerevolmente.

Per consolarci possiamo considerare che il «punto di fumo» è un elemento complessivamente sopravvalutato, visto che la temperatura ideale della frittura è di 180° ed un termometro da cucina si può reperire a costi contenuti in un qualsiasi supermercato.

Lo stesso termometro che ci consente di sapere quando il grasso di cottura ha raggiunto la temperatura desiderata senza ricorrere a metodi tradizionali, come la classica fetta di pane o lo stecchino di legno, che lasciano il tempo che trovano.

Per evitare sgradevoli sorprese allora vale sempre il principio di appropriatezza.

Il grasso di frittura deve essere in quantità proporzionata a quella dell’alimento tenendo presente che è meglio cuocere pochi pezzi per volta e di piccole dimensioni, che vi sono fritture pulite come quella delle verdure al naturale e delle patate e fritture sporche, che con i loro residui accelerano il decadimento del grasso di cottura, come quelle degli alimenti in pastella e soprattutto quella dei fritti infarinati, panati o passati nell’uovo e, infine, ma non meno importante, che il grasso di cottura non va mai lasciato sul fuoco senza alimenti altrimenti frigge se stesso e decade rapidamente.

La friggitrice ad aria

Impossibile, parlando di fritto, non menzionare uno degli elettrodomestici che nell’ultimo decennio hanno avuto più successo: la friggitrice ad aria che per alcuni è un oggetto di culto, per altri uno strumento diabolico.

Iniziamo col dire che, malgrado il nome accattivante, nella friggitrice ad aria non si realizza una vera e propria frittura, visto che non si ha immersione in grasso bollente, ma solo una circolazione d’aria ad alta temperatura che se si cosparge preventivamente l’alimento, necessariamente secco, con un sottile strato d’olio in grado di sostenere la temperatura di cottura (che può giungere sino a 360°) dà un risultato in termini di croccantezza simile a quello della frittura.

Va da sé che tutti i fritti umidi, da quelli pastellati compresa la tempura ai fritti dorati, possono essere realizzati con la friggitrice ad aria solo con degli accorgimenti che comunque difficilmente ci consentono di raggiungere i risultati desiderati o comunque paragonabili a quelli del fritto tradizionale.

I pregi sono indiscutibili se ci si accosta alla frittura come prodotto industriale e quindi spazio al pollo fritto, alle patatine, ai crostacei cioé a tutti quegli alimenti che ci aspetteremmo di trovare in un fast food, ma che con la cottura in friggitrice ad aria risultano meno grassi e, soprattutto, rispetto alla frittura tradizionale, non impregnano tutta la casa e ci lasciano pochissimi grassi da smaltire.

Le dimensioni della friggitrice ad aria devono essere necessariamente ridotte altrimenti i consumi elettrici diventano realmente importanti il che la trasforma nel classico strumento di cottura, come il forno a microonde, per chi ha poco tempo e pochi quantitativi di cibo da cucinare.

Tanto per i puparuol mbuttunat c’è una mamma, una suocera o un nonna che ci viene in soccorso.

Il fritto fa male

Uno dei dogmi della cucina moderna (e non scrivo volutamente contemporanea) è che il fritto faccia male, sia l’anticamera dell’infarto, il che è vero per coloro che si cibano esclusivamente di alimenti fritti, magari di origine industriale, meno vero per tutti i comuni mortali che una volta al mese di vogliono concedere un fritto, tradizionale, come dio comanda.

Già ai tempi di Brillat-Savarin, che ne «La fisiologia del gusto» dedicò un capitolo intero alla «Teoria della frittura», ci si divideva in «minestristi» e «fritturisti», mentre il fritturista Aldo Fabrizi, che immaginava i fritti protagonisti anche del suo funerale (con « le corone fatte de fiori de cocuzza fritti») era consapevole dei rischi della frittura al punto da concludere il suo sonetto sul pandorato affermando: «Certo chi soffre de colesterina e nun se vò aggravà, rinunci puro, e vadi a letto con la minestrina».

La caccia all’unto, più che all’untore, che ha accompagnato nell’ultimo secolo la frittura ha decretato la scomparsa delle friggitorie.

Ndo’ è annato er sor Grispini?

Annientato dalla cucina a vapore, surclassato da un nutrizionismo esasperato ha ceduto il locale ad una jeanseria e ora frigge clandestinamente nell’aldilà.

Foto di Hans da Pixabay

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