I favolosi anni ’80: quando la cucina incontrò l’Edonismo Reaganiano

L’Edonismo Reaganiano

«Allora, dimmi, ragazzo del futuro, chi è il presidente degli Stati Uniti nel 1985?».

«Ronald Reagan».

«Ronald Reagan?! L’attore?! E il vicepresidente chi è? Jerry Lewis? Suppongo che Marilyn Monroe sia la First Lady! E John Wayne il ministro della guerra!» (Emmett “Doc” Brown (Christopher Lloyd) e Marty McFly (Michael J. Fox) in «Ritorno al futuro» di Bob Gale e Robert Zemeckis).

Il 20 gennaio 1981 Ronald Wilson Reagan, un passato da discreto attore hollywoodiano ed una carriera politica come sindacalista della Screen Actors Guilde e Governatore della California, diventava il 40° Presidente degli Stati Uniti d’America con un largo consenso elettorale.

La Presidenza Reagan segnò profondamente, nell’economia e nel costume, tutti gli anni ’80 ed i suoi effetti iniziarono a vedersi in Italia solo qualche anno dopo.

Nella primavera del 1985 fece il suo esordio televisivo su Rai2 «Quelli della notte», contenitore della terza serata ideato e condotto da Renzo Arbore.

Un salotto televisivo dissacrante che aveva tra i suoi protagonisti un giovanissimo Roberto D’Agostino a cui Arbore assegnò l’inedito ruolo di «lookologo», cioé critico di costume ed esperto di look.

Fu D’Agostino, che sorprendeva i telespettatori sproloquiando con sicumera di autori sconosciuti alle masse come Milan Kundera e Karl Rosenkranz, a coniare l’espressione «Edonismo Reaganiano» che nel succedersi delle puntate della fortunata trasmissione si trasformò in un tormentone.

E tale, per ammissione dello stesso D’Agostino, era destinato a rimanere se non avesse colpito una parte dell’intellighenzia dell’epoca ansiosa di liberarsi della trappola ideologica in cui era stata catturata per tutti gli anni ’60 e ’70.

Furono Gianni Vattimo, Salvatore Veca e Giuseppe Vacca ad impadronirsi dell’espressione inserendola nel dibattito politico-filosofico come chiave di lettura per spiegare la rapida evoluzione dei costumi innescata dalla «reaganomics» che, in termini assai semplicistici, riportava in auge, dopo decenni di interventismo statale, welfare e pauperismo, il liberismo, l’individualismo e quindi, conseguentemente, la ricerca del piacere.

Scrisse su Panorama del giugno 1985 Salvatore Veca: «Anche nell’epoca della felicità privata si può mantenere la capacità di raziocinio, non demonizzare né santificare quel che succede, ma cercare di distinguere».

La «felicità privata», a lungo sacrificata dal mondo giovanile della fine degli anni ’60 e di tutti gli anni ’70 e sostituita dalla «felicità sociale», così definita da Albert Hirschman, esplose improvvisamente ed inaspettatamente prendendo in contropiede la politica e gl’intellettuali dell’epoca di ogni orientamento.

I media coniarono il termine «riflusso» per definire l’abbandono dell’impegno  dei giovani, delusi dalla politica e dalle sue conseguenze talvolta tragiche (si stava uscendo in quel periodo dai cosiddetti anni di piombo) e la riaffermazione dell’individualismo.

E la cucina?

Impossibile che rimanesse esclusa da questa piccola rivoluzione dei costumi e del rapporto con il piacere individuale.

Un passo indietro: la cucina degli anni ’70

Nel mondo della ristorazione europea la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 avevano rappresentato una svolta che si era inserita in quel fermento di rinnovamento culturale, in massima parte francese, che aveva anticipato e seguito la contestazione degli «ingrati del benessere francese», come li avrebbe definiti De André e che si era sviluppato nel cinema con la nouvelle vague e nella letteratura con il nouveau roman.

A guidare la rivoluzione erano stati due gastronomi d’oltralpe: Henri Gault e Christian Millau che nei primi anni ’70 avevano fondato un vero e proprio movimento cultural-gastronomico, la nouvelle cuisine, che rinnegava alcuni capisaldi della cucina tradizionale francese, come l’eccesso delle salse e dei grassi aggiunti, privilegiava nuove tecniche di cottura breve e possibilmente a bassa temperatura (vapore e bagnomaria in particolare), mirava a salvaguardare le caratteristiche organolettiche dei cibi ed infine riduceva considerevolmente la quantità delle porzioni con il confezionamento di esse direttamente in cucina in modo da comporre, anche dal punto di vista estetico, un piatto già completo ed equilibrato secondo la scelta dello Chef.

Nella ristorazione se ne facero ambasciatori due grandissimi Chef francesi: Paul Bocuse e Pierre Troisgros.

In Italia il fenomeno fu accolto con diffidenza, da un lato perché indubbiamente elitario anche rispetto alla ristorazione di lusso, ancora affascinata da quella franco-russa, dall’altro perché il gusto borghese, quello che avrebbe dovuto essere il motore economico in grado di trasferire masse di persone dalla cucina casalinga, arroccata nelle sue tradizioni, alla ristorazione era ancora profondamente conservatore.

Se non mancarono i pionieri, su tutti Gualtiero Marchesi, Gialuigi Morini e Nino Bergese, che troveranno però realmente ascolto solo agli inizi degli anni ’90, né i locali che provarono a cambiare la tradizione, come il San Domenico di Imola di Gianluigi Morini, mancò però un substrato culturale-gastronomico in grado di accogliere le nuove tendenze.

Quando  andava al ristorante la famiglia italiana, specie se l’occasione era quella di una festa o di una ricorrenza, voleva ancora mangiare, non degustare e allora le mini-porzioni tipiche della nouvelle cuisine vennero salutate in modo ironico («è cotto adesso portami il mio piatto») o polemico come tentativo dei cuochi di ridurre le porzioni aumentando il loro guadagno.

Come in tutti i momenti di transizione si realizzò una frattura generazionale.

Da una parte il mondo giovanile protagonista della ribellione della fine degli anni ’60, ma in gran parte privo di mezzi economici e che, pur attento ai movimenti culturali d’oltralpe, in cui la nouvelle cuisine s’inseriva,  guardava con senso di colpa ai piaceri della tavola.

Dall’altra un universo adulto in cui la nuova agiatezza portata dagli anni del boom economico non corrispondeva ad una crescita culturale. 

Emblematico è l’episodio, poi divenuto cult,  «Le vacanze intelligenti» (dal film «Dove vai in vacanza?») con Alberto Sordi e Anna Longhi nei panni degli impacciatissimi coniugi Proietti.

L’Edonismo Reaganiano in cucina

Chi si aspettava che lo sdoganamento del piacere individuale da parte dell’edonismo reaganiano portasse automaticamente all’esplosione della nouvelle cuisine rimase, probabilmente, deluso.

Dal punto di vista gastronomico infatti proprio negli anni della riscoperta del gusto anche fine a se stesso e del piacere della tavola si realizzò una sorta di cortocircuito gastronomico e la storia della cucina sembrò fare passi indietro invece che in avanti.

Laddove la tendenza della nouvelle cuisine era minimalista, anche nelle porzioni, l’ingresso del mondo giovanile, ormai diventato giovane-adulto, nei piaceri della tavola ubbidì ad un unico inderogabile imperativo: esagerare e per esagerare dovette recuperare un approccio tardo rinascimentale alla cucina.

La cucina degli anni ’80 fu, per molti versi, una cucina esagerata e squilibrata come esagerato e squilibrato era lo stile di vita a cui aspiravano i giovani del riflusso, che si riconoscevano in quella «Vita spericolata» cantata da un  rocker emiliano, Vasco Rossi, che nel biennio 82-83 scandalizzò il  Festival di Sanremo con «Vado al massimo» e, appunto, «Vita spericolata».

Uscendo dai canoni europei  ubbidiva all’imperativo, proprio dello stile culinario  d’oltreoceano, secondo cui se un ingrediente è buono se se ne mette il triplo il piatto verrà tre volte più buono.

Basta scorrere un menù dell’epoca per rendersene conto. 

Cocktail di scampi, gamberi o gamberetti; pasta con panna, prosciutto e piselli; pennette alla vodka; farfalle con panna e salmone affumicato; risotto alle fragole o allo Champagne; tagliatelle ai funghi, salsiccia e panna; tagliolini al limone; tortellini alla panna;  carpaccio rucola e grana;  filetto al pepe rosa o al pepe verde; scaloppine ai funghi con la panna, al limone o al Marsala; sogliola alla mugnaia; uova con salsa tonnata; vitel tonné con maionese;  insalata nizzarda; panna cotta; pesca Melba; Profiteroles; Tiramisù.

Insomma un tripudio di panna, salse, rucola, mascarpone, salsa Worchester.

Parallelamente, soprattutto al Nord, aprivano i primi fast-food con la nascita di un nuovo soggetto giovanile: i paninari, incarnati in televisione da Enzo Braschi (che a dire il vero all’epoca era più che trentenne) nella trasmissione «Drive In» di Antonio Ricci che sdoganò il trash, portò al grande pubblico una serie di comici che avevano fatto la gavetta nei piccoli teatri e fu per molti versi l’alter ego di  «Quelli della notte» con un target dichiaratamente adolescenziale.

Quale fondamento aveva quella cucina così dissonante sia da quella tradizionale italiana sia da quella internazionale?

Semplicisticamente potrebbe dirsi: la mancanza di gusto anche se alcuni di quei piatti sono entrati ormai nel mito ed il solo nominarli evoca un periodo storico spensierato, orgiastico lo avrebbe definito qualcuno.

Un giudizio sicuramente corretto dal punto di vista strettamente gastronomico, ma forse sin troppo severo.

La realtà è che il mondo giovanile si era disinteressato del cibo per troppo tempo: il cibo era la cucina di mamma o di nonna, blandita o imposta, oppure un mero strumento di sopravvivenza in una cultura tutta rivolta all’interiorità.

Nessuno fino ad allora aveva chiesto ai giovani di preparare il cibo secondo le loro preferenze, né gli aveva consentito di creare un proprio gusto generazionale e la reazione di quel mondo fu di lasciarsi guidare dalle mode abbandonando le sporadiche incursioni nelle osterie e nelle pizzerie.

Il minimo comune denominatore di quelle preparazioni era, oltre all’esagerazione,  la relativa semplicità della loro realizzazione con una certa concessione all’estetica unita alla reperibilità degli ingredienti spesso di derivazione industriale come la panna UHT, il tonno in scatola, la maionese in tubo, la panna cotta e il mascarpone.

Il vitel tonnè: da Pellegrino Artusi all’Edonismo Reaganiano

I canoni in precedenza enumerati si rinvengono perfettamente nel vitello tonnato, o «vitel tonné», un piatto tradizionale della nostra cucina che negli anni ’80 subì una vera e propria mutazione al punto che moltissimi sono convinti che nasca proprio in quel periodo.

Dal punto di vista storico si tratta di un piatto tradizionale rivendicato dalla cucina piemontese, e cuneese in particolare, anche se le sue origini si perdono nel mito grazie soprattutto alla sua curiosa denominazione visto che i termini che la compongono («vitel tonnè») non trovano corrispondenza né in italiano, né, malgrado l’assonanza, in francese dove la vitella è chiamata veau.

Nei testi di cucina francese contemporanea, oltretutto, così avari di riconoscimenti per la nostra, è del tutto pacifica l’origine italiana, per la precisione piemontese, del piatto che è denominato, con traduzione letterale: «Veau à la sauce au thon».

In rete si trovano alcune narrazioni tanto difficili da confutare quanto da accettare.

C’è chi racconta, datando il piatto al XVIII secolo, che il tonno sarebbe stato completamente assente in origine, derivando la parola «tonnè» dal francese «tanner» che significa conciare, così che il piatto sarebbe sostanzialmente un modo di trattare una vitella come se fosse carne di tonno. Ed in effetti in Toscana si usa lavorare in questa maniera la carne di maiale chiamata ironicamente «tonno del Chianti», con il riferimento ad una zona collinare che ovviamente non ha nulla a che fare con la pesca.

Altri invece, più realisticamente, collegano l’origine del piatto all’annessione, avvenuta con il Congresso di Vienna, di Genova, dove già fioriva l’industria del tonno sott’olio, al Piemonte con l’afflusso nelle case dei piemontesi agiati di questo ingrediente così duttile e sapido.

Alcuni indizi portano a ritenere che il piatto sia nato proprio nella borghesia e nella piccola nobiltà piemontesi probabilmente alla metà del 1800.

Il primo è nella curiosa denominazione di «vitel tonnè», una francesizzazione che aspira ad una sorta di nobilitazione e che è  tipica della cucina piemontese da poco affrancata, nei primi anni del  XIX secolo, dalla cucina d’oltralpe.

Il secondo è rappresentato dagli ingredienti della salsa: a parte il tonno si ritrovano, infatti, i tuorli d’uovo sodo, le acciughe ed i capperi, cioé gl’ingredienti di base di alcune salse di accompagnamento del Gran Bollito Misto alla piemontese. E bollita, almeno nella ricetta tradizionale, era anche la carne di vitella così che, scomponendo il piatto, ci si trovava al cospetto di un bollito di vitella con una salsa arricchita al tonno.

Il terzo, infine, che smentisce ogni origine popolare, è il tipo di carne: la vitella, appannaggio delle classi agiate.

Non sorprende allora che la prima versione della ricetta codificata, italianizzata in vitello tonnato visto che l’autore odiava i francesismi ed i dialetti, si ritrovi ne «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» di Pellegrino Artusi che la riporta già nella prima edizione del 1891.

Curiosamente per l’Artusi, così generoso nel chiosare le sue ricette con aneddoti e richiami alle loro origini, il vitello tonnato è esposto senza presentazioni, con il solo monito finale a non sprecare l’ottimo brodo in cui è stata cotta una carne tanto pregiata, il che, per chi ha confidenza con il metodo artusiano, induce a credere che fosse un piatto ormai entrato stabilmente nella cucina borghese e che quindi non avesse necessità di presentazioni. 

Agli inizi degli anni ’80 il piatto subì, come accennato, una vera e propria mutazione. 

La salsa tonnata tradizionale venne sostituita dalla maionese frullata con il tonno ed i capperi, omologandosi agli altri piatti di  quegli anni che avevano fatto della cremosità un requisito immancabile più o meno come accade oggi con  la croccantezza.

La maionese, che sostituì i tuorli della ricetta tradizionale, era quella  industriale (che liberava dall’incombenza della preparazione di questa salsa complessa, faticosa da realizzare e facile all’«impazzimento») mentre il tonno era quello in pezzettini delle scatolette dandosi poca importanza al trancio intero visto che il tutto andava frullato assieme ai capperi dissalati.

Un gradevole piatto da portata, un po’ di creatività nella composizione della carne e della salsa e qualche decorazione, come quella con i cucunci, cioé i frutti del cappero, consentivano anche ai meno dotati dal punto di vista culinario di realizzare una pietanza di sicuro effetto visivo così che il piatto ebbe grande popolarità nelle cene casalinghe in cui si cimentavano i giovani cuochi dilettanti.

Lo stesso effetto del cocktail di gamberi (o di gamberetti) o della fiammata di prammatica nelle pennette alla vodka che richiamava abilità da Maestri di sala colpendo l’immaginario dei commensali ed anticipando quella instagrammabilità che oggi deve possedere qualsiasi presentazione culinaria.

Il senno di poi: l’eredità gastronomica degli anni ’80

Sarebbe sin troppo facile ironizzare oggi, anche se nei boomers ed in quelli venuti subito dopo non mancherebbe una punta di rimpianto, sulla gastronomia di massa degli anni ’80.

Oggi che su molti temi del cibo o legati al cibo si è raggiunta una nuova consapevolezza.

Eppure a guardare con attenzione quella gastronomia segnò un passaggio fondamentale.

L’attenzione giovanile sul cibo creò inizialmente qualche distorsione, fu probabilmente un motore della massificazione del cibo, ma se non ci fosse stato il fast-food non ci sarebbe stato, per reazione, neppure lo slow-food, se non ci fossero stati gli eccessi nell’uso della panna e delle salse in generale non ci sarebbe stata la scoperta della nouvelle cuisine e della sua essenzialità da parte dei giovani.

Nel 1986 nacque infatti «Il Gambero Rosso», supplemento del quotidiano Il Manifesto, storicamente interprete degli umori dell’ala intellettuale della sinistra  italiana degli anni ’70, e Il Gambero Rosso diede voce ad «Arci  Gola», anch’essa del 1986, che tre anni dopo sarebbe diventata Slow Food e che s’identificò in quel manifesto («Una proposta per tutti coloro che vogliono vivere meglio – Slow Food»), pubblicato su Il Gambero Rosso del 3 novembre 1987, sottoscritto, oltre che da Carlo Petrini, che di Slow Food sarà fondatore e animatore principale, anche da alcuni personaggi cari alla sinistra giovanile dell’epoca come Valentino Parlato, Dario Fo, Francesco Guccini e Sergio Staino.

Il puro piacere edonistico mutava, grazie ad una nuova sensibilità più attenta ai bisogni individuali e all’ambiente, in benessere alla portata di tutti, arrivando, dal punto di vista gastronomico, anche a quella  piccola e media borghesia che era rimasta insensibile alle sollecitazioni delle avanguardie della nouvelle cuisine.

Oggi che gli acquisti a km0, le carni sostenibili, il vino e l’olio extravergine di qualità, l’origine degli alimenti  ed i giusti equilibri sono ormai parte integrante della nostra cultura culinaria, o almeno di quella della fascia di popolazione che può permetterseli, non dobbiamo vergognarci troppo della panna messa ovunque e della rucola.

«”C’est la vie”, say the old folks, it goes to show you never can tell» direbbe Chuck Berry.

Foto di John R Perry da Pixabay

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