Bluegrass. Alle radici della musica americana

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L’anno è il 2000 ed esce al cinema Fratello dove sei (O Brother, Where Art Thou?) diretto dai fratelli Cohen. Il film è una rivisitazione comica dell’Odissea di Omero, ambientata in un’America rurale degli anni ’30 con protagonisti tre fratelli che scappano dai lavori forzati e affrontano varie peripezie nel viaggio verso casa.

Un grande punto di forza della pellicola è la colonna sonora che accompagna i tre, Ulysses, Pete, Delmar; loro stessi si scoprono interpreti attivi, eseguendo delle canzoni che li porteranno alla redenzione sociale e legale. D’altronde, la maggior parte dei brani di questa pellicola non sono un sottofondo di accompagnamento ma avvengono in scena, cantanti e suonati dai vari personaggi.

Questa scelta registica è riuscita a legare tanto fortemente ciò che sentiamo con ciò che vediamo che ha suscitato nel pubblico un’immagine di un’America giovane, pura, pre-industriale, accompagnata proprio da quelle sonorità considerate quindi le più autentiche: il blues, il country, e il bluegrass.

Il bluegrass in realtà non è propriamente simbolo degli anni ’30, ma di qualche anno successivo: deve la sua nascita ed evoluzione alla ricerca stilistica di Bill Monroe, suonatore di mandolino del Kentucky. Nacque nel 1911 e imparò la musica coi fratelli e lo zio, soprattutto brani della tradizione anglosassone. Incontri successivi con musicisti di altre esperienze lo resero cosciente del panorama blues e jazz.

La sua band si plasmò un po’ alla volta e con essa la prima sonorità bluegrass: solo “string instruments”, cioè strumenti a corda, quali mandolino, chitarra, banjo, contrabbasso, violino, più la voce. I pezzi hanno una pulsazione rapida, l’accompagnamento è frenetico: il contrabbasso è deciso e tiene il tempo con ogni colpo al battere, il banjo, grazie alla nuova tecnica di Earl Scruggs (1924-2012), è repentino e onnipresente.

Tutti gli strumenti hanno spazio per un assolo nei brani mentre la voce riprende tecniche blues, ma anche salti e glissandi dei Monti Appalachi (a loro volta discendenti dagli Yodel alpini), tremoli e abbellimenti nasali del repertorio irlandese e inserti coristici d’insieme.

È una musica nuova e giovane che negli anni del dopoguerra parla all’America dei contadini e degli operai, lontani dalle sale da ballo swing e jazz delle città, dal gospel e dal blues, dai nuovi divi del Rock’n’Roll. E le canzoni bluegrass, nonostante l’accompagnamento strumentale vivace, sono nostalgiche e malinconiche, parlano del lavoro della terra, di introspezione, di speranza verso la famiglia, o di riscatto sociale.

All’inizio del suo sviluppo, negli anni ’40, il genere si confonde sotto l’ombrello più ampio della musica western-country, spesso però relegato alla sfera più marcatamente agreste e isolata denominata, a volte a spregio, hillibilly. Ma già negli anni ’60 assistiamo a un revival del genere fomentato da studenti interessati a salvaguardare l’autentica musica folk americana, come già Alan Lomax aveva fatto qualche decennio prima.

Nei decenni a seguire nascono numerosi gruppi che artisti che trattengono quanto più le caratteristiche dello stile e lo rinnovano con le loro voci personali o alcuni caratteri peculiari: John Hartford, New Grass Revival, Alison Krauss and Union Station, Old Crow Medicine Show, Greensky Bluegrass, fino ad arrivare ai Mumford & Sons che hanno connesso il genere al pubblico giovane dell’indie.

Foto di Andreas Riedelmeier da Pixabay

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