Il cavaliere, la morte e l’allegoria

Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia è un po’ come la vita: non lo si capisce fino in fondo finché non si arriva all’ultima pagina. Un romanzo che sembra poliziesco ma in cui il delitto è solo la scusa per mettere in scena un’allegoria. Una sotie, (parola che fa da sottotitolo e che indica un componimento allegorico basato sulla satira sociale) in cui il sot è un commissario malato terminale chiamato genericamente Vice. Vice di cosa? Non si sa. In realtà si sa ben poco di lui, solo che viene dalla Sicilia fredda, che ama la morfina e che in qualunque ufficio si sposti porta con sé la stampa di Albrecht Dürer Il cavaliere, la morte, il diavolo

Acquistata anni prima sull’onda di un irrefrenabile desiderio di possesso, per il Vice l’incisione è lo scrigno del mistero che spiega una realtà altrimenti inafferrabile. Pochi personaggi per una messa in scena dalla forte carica simbolica: un diavolo che sembra una caricatura, una Morte vestita da mendicante, un cavaliere sotto la cui armatura si potrebbe nascondere chiunque. «Christ? Savonarole?» si chiedeva il collezionista che un tempo possedeva la stampa. Il Vice riesce a darsi una risposta solo alla fine del romanzo, dopo aver indagato sulla morte dell’avvocato Sandoz e essersi scontrato con l’intoccabilità del Presidente Aurispa. 

Il Presidente

«Il presidente spuntò silenziosamente da dietro una tenda. Era in soffice veste da camera, ma già sbarbato, pronto a vestirsi con quell’eleganza severa e sicura che i giornali di moda […] gli riconoscevano. E intorno a lui aleggiava il fastidioso dover ritardare la solita, puntuale, quasi leggendaria uscita mattutina per recarsi al grattacielo delle Industrie Riunite: dal più alto piano del quale, quasi in confidenza col cielo, prendeva le quotidiane e sempre giuste decisioni per cui il paese intero si teneva sul filo del benessere, della ricchezza: avendo però da un lato lo strapiombo della miseria, dall’altro quello della peste».

Sciaiscia lo presenta in tutta la sua imponenza, introducendo una riflessione politico-sociale portata avanti da anni. Aurispa è autore di un biglietto inviato a Sandoz con scritto Ti ucciderò. Questo dovrebbe metterlo in cima alla lista degli indiziati invece il Capo (anche lui senza nome di battesimo) preferisce credere alla storia del messaggio goliardico pur di indirizzare i sospetti altrove.

I figli dell’ottantanove

Disuguaglianze, corruzione, terrorismo e inflazione: questi sono gli anni Ottanta che lo scrittore ci descrive. La storia si svolge all’inizio del 1989, nel futuro dato che il libro viene pubblicato nel 1988. Un piccolo salto nel tempo che permette a Sciascia di arricchire la sua polemica introducendo i figli dell’ottantanove. ’89 come l’anno corrente, ma anche come 1789, anno della Rivoluzione francese. I figli dell’ottantanove infatti sono un gruppo sovversivo che agisce nell’ombra per sollevare una rivolta contro lo stesso potere costituito di cui in realtà fa gli interessi. Le loro presunte telefonate minatorie a Sandoz sviano i sospetti dal Presidente. Ma la domanda che il Vice si pone è: «i figli dell’ottantanove sono stati creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato ucciso per creare i figli dell’ottantanove?». 

Atto sovversivo o manovra politica? Una domanda che non riesce a trovare risposta definitiva in una realtà che si sfalda nelle contraddizioni, nei ribaltamenti di senso, nelle assonanze che creano dissonanza. Il vizio del fumo che rimanda all’Inquisizione, la conversione che diventa persecuzione, l’argento troppo argentato per essere argento, il molto che accompagnato al non assume il suo significato opposto, polizia che somiglia a pulizia e la domanda: «c’è pulizia nella sua polizia?». 

Il cavaliere, la morte e il diavolo

L’unica cosa certa è la morte con le infinite sfumature di dolore. Una morte che comincia in vita, tra l’immondizia. «L’immondizia non mente mai» e tra gli scarti di un uomo si trovano sempre le sue verità, a loro volta scartate per far posto a una perfezione apparente: argento troppo argento per essere argento. Ma il Vice decide di sguazzare in quei rifiuti, di vivere quella vita che sa di morte per amore di verità e di guardare al di là della vita apparente che in realtà vita non è. Può farlo perché non ha più niente da perdere, perché – come dice al Grande Giornalista – è già approdato all’isola deserta del dopo-vita. 

Un’isola deserta che nella logica dei ribaltamenti di senso che percorre il romanzo diventa vita conquistata. E allora ecco che la Morte di Dürer da mendicante diventa mendicata e il Cavaliere – che per Sciascia rappresenta la vita troppo sicura di sé – diventa vera morte e quindi vero diavolo.  In quanto al diavolo, non esistono parole migliori per spiegare il suo ruolo di quelle di Sciascia stesso:«era troppo orribilmente diavolo per essere credibile. Gagliardo alibi nella vita degli uomini, tanto che si stava in quel momento tentando di fargli riprendere il vigore perduto: teologiche terapie d’urto, rianimazioni filosofiche, pratiche parapsicologiche e metapsichiche. Ma il diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui». 

Fonte foto: alessiocarmignani.it

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