Museo Egizio. La rivoluzione gentile di Christian Greco

Che cos’è un museo e che cosa ci spinge a varcarne l’ingresso? Spesso non lo sappiamo e ci facciamo guidare dalla curiosità, fiduciosi che le nostre aspettative non verranno disattese. C’è però una categoria di persone che una risposta a questa domanda se la dovrebbe dare ogni giorno. La categoria in questione è quella dei direttori dei musei. I quali, nel rispondere, dovrebbero anche chiedersi se la loro risposta è in linea col mandato ricevuto, ovvero: se la loro interpretazione del mandato è all’altezza del compito ricevuto. Ogni museo è un caso a se stante. La sua storia nonché l’unicità degli oggetti che custodisce lo rendono infatti diverso dagli altri. Ciò è tanto più vero nel caso di un museo egizio. 

Lunedì 13 maggio, Christian Greco, egittologo, dal 2014 direttore del più antico museo egizio del mondo, e del più grande dopo quello di Cairo, ha intrattenuto il pubblico dell’Istituto di cultura di Monaco di Baviera in una  conferenza-intervista tanto interessante quanto emozionante. Interessante per l’argomento trattato, emozionante per la passione con cui l’argomento è stato trattato. Greco ha risposto alle domande di Jessica Distefano, dottoranda in egittologia e coptologia della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco. I temi trattati sono stati molteplici e svariati. Tra essi, quelli relativi alla gestione del museo, al patrimonio culturale custodito e al rapporto con il pubblico e con il territorio. 

Fondato nel 1824, il Museo Egizio di Torino ha una collezione di decine di migliaia di reperti. Quelli esposti sono 3300 in un percorso che copre circa 4000 anni di storia. Dal 2004 l’ente responsabile della gestione è la Fondazione Museo Egizio di Torino. Dopo importanti lavori di ristrutturazione e ampliamento il museo ha riaperto nel 2015 con una superficie espositiva più che raddoppiata e 5 km di percorso museale. Nel 2018 i visitatori sono stati circa 850.000. Greco ha rimarcato che, a partire dalla riapertura, il museo non ha più avuto finanziamenti pubblici o privati. 

Bilancio finanziario e autonomia

“Nel 2018 il bilancio è stato di 12,6 milioni di euro, guadagnati unicamente dal museo con la bigliettazione, con le mostre itineranti e con la vendita dei libri. Con questo bilancio il museo provvede a finanziare i lavori di conservazione della collezione e a pagare gli stipendi ai dipendenti. Questo richiede un’attenta programmazione per evitare licenziamenti. In Europa musei della nostra entità hanno bilanci ben più alti, intorno ai 60 milioni di euro. Il modello «fondazione» permette di lavorare con più efficienza e snellezza rispetto al modello statale perché io posso assumere e licenziare il mio personale, cosa che sarebbe impossibile in una istituzione pubblica. Le assunzioni le farebbe il Ministero per i beni culturali, e le categorie assunte sarebbero solo quelle di archeologi, architetti e storici dell’arte, ma non quella degli egittologi. L’attuale modello permette snellezza amministrativa, autonomia nel redigere le programmazioni pluriennali e nell’indire gare localmente”.   

Il museo egizio impossibile

Greco ha poi parlato dei progetti in cantiere. 

“La sfida di tutti i musei egizi è quella di poter realizzare, nel XXI secolo, il «museo egizio impossibile». La maggior parte delle collezioni che abbiamo in Europa si sono formate nel corso del XIX secolo e hanno portato a uno smembramento di contesti unitari. Esemplare è il caso della scoperta di una tomba tebana, appartenente a Djehutymes (grande intendente del tempio di Amon e prete imbalsamatore, ndr) e Iside (divinità egizia, ndr), fatta nel 1819 dall’archeologo piemontese Antonio Lebolo. La tomba risale all’età ramesside, ma ha anche una occupazione molto successiva, risalente al periodo imperiale romano di Traiano e Adriano. Non riuscendo a vendere la tomba interamente a un unico collezionista, Lebolo la frazionò e la vendette a diversi collezionisti. Risultato: Torino ha l’occupazione di età ramesside con i sarcofagi di Thutmose (dinastia di faraoni, ndr) e Iside e con una piccola mummia di 4 anni, appartenente a un bambino di nome Petamenofi, relativa all’occupazione di età romana. La zia di Petamenofi, Sensaos, si trova in Olanda nel museo egizio di Leiden; i nonni si trovano a Londra nel British Museum; i genitori si trovano al Louvre; i fratelli e i cugini si trovano nel museo egizio di Berlino. Questo è un esempio di cosa sono i «disiecta membra», espressione che non rappresenta soltanto una collezione sparsa, ma separata dal suo contesto archeologico originale. La tomba è tuttora oggetto di scavi e nel 2021 il Museo Egizio di Torino parteciperà a una mostra che metterà insieme parti delle collezioni nel loro contesto archeologico originale. Inoltre, grazie alla digitalizzazione, verrà realizzato il «museo egizio impossibile», riparando i danni fatti nel XIX secolo. Torino, Leiden, Berlino, Londra e Parigi, cinque grandi collezioni europee e la madre di tutti i musei, quello di Piazza Tahrir al Cairo, uniti nel condividere informazioni sull’immensa collezione archeologica egizia”. 

Ernesto Schiaparelli

La storia del Museo Egizio di Torino è legata indissolubilmente alla figura di Ernesto Schiaparelli, che ne fu direttore dal 1894 al 1928. Jessica Distefano ha accomunato lo sforzo innovativo di Christian Greco a quello di Schiaparelli. 

“L’unica cosa che ho in comune con lui è essere diventato direttore a 39 anni. Ernesto Schiaparelli è stato il più grande direttore che il museo egizio ha avuto e mai potrà avere, per il semplice fatto che ha portato 35.000 reperti al museo. La sua lungimiranza è stata quella di portare la ricerca al centro dell’attività del museo. Durante il suo viaggio in Egitto del 1896, arrivato a Luxor, cominciò una serie di acquisti, tra cui importanti sarcofagi, che però non lo soddisfecero perché erano svincolati dal contesto originale. Gli scavi iniziati nel 1903 e condotti fino al 1927 hanno allargato tantissimo la collezione. Attualmente stiamo studiando i manoscritti e l’immenso archivio lasciato da Schiaparelli. In particolare stiamo digitalizzando 300.000 documenti tra cui 14.000 lastre fotografiche inedite che metteremo presto online”. 

La ricerca

Greco ha poi parlato della sua idea di museo come ente di ricerca. 

“Un museo senza ricerca non esiste. Un museo senza ricerca muore. Molti ritengono che i musei devono continuare a comprare pezzi per la propria collezione. Io ho deciso di non farlo. Il museo egizio potrà tornare a comprare solo dopo aver completato la ricerca e lo studio sulla sua attuale collezione. La ricchezza di un museo non si accresce solo dal punto di vista quantitativo, ma soprattutto qualitativo, ovvero comprendendo meglio le collezioni che custodisce. Questo è possibile solo facendo ricerca”. Ma la ricerca ha bisogno di competenze e dunque di personale.“All’inizio del mio mandato, in una riunione del consiglio d’amministrazione mi fu proposto di licenziare il personale scientifico. Risposi: «cominciate da me». Sono arrivato che avevo 13 dipendenti. In cinque anni li ho portati a 51. Alla scadenza del mio mandato (previsto per il 2024, ndr) vorrei fossero 200. Ogni anno investo gli avanzi di bilancio in borse di dottorato. Io non vedo alcuna differenza tra il museo e una università. La ricerca va condotta attraverso gli scavi archeologici, ridando contesto alla collezione. Ma anche sugli archivi, sulla cultura materiale disponibile, gran parte non ancora pubblicata, come i 26.000 frammenti di papiro provenienti da Deir el-Medina che costituiscono uno degli archivi amministrativi più importanti dell’antichità. Questa ricerca siamo riusciti a finanziarla grazie al progetto «Crossing Boundaries» in collaborazione con le università di Basilea e di Liegi e ci permetterà di assumere due dottorandi e due post-dottorandi. 

Museo e  territorio

Jessica Distefano ha poi chiesto a Greco di parlare del rapporto del museo con il territorio. “Ho preso servizio il 28 aprile 2014. Il giorno prima in un’intervista al Sole 24ore ho parlato delle cose che volevo fare, tra cui quella di portare il museo «fuori dal museo». Un museo non è una torre d’avorio separata dal mondo in cui esso è inserito, non esiste per diritto divino. Ogni giorno deve conquistarsi spazio nel territorio a cui appartiene. Ciò vuol dire guardare alla comunità scientifica, agli studiosi, agli studenti universitari, alla popolazione scolastica delle scuole di ogni ordine e grado, alla cittadinanza nel suo complesso, ai ricchi come ai più bisognosi. Un museo appartiene a tutti. Una delle prime iniziative che abbiamo fatto è stata quella di portare il museo nel dipartimento pediatrico oncologico dell’ospedale infantile Regina Margherita di Torino. Andare a parlare a dei ragazzini che avevano appena avuto la chemioterapia è stato un momento di sollievo per i ragazzi e di grande crescita per me e per il mio personale”. Stessa cosa è successa con i detenuti del carcere di Torino ai quali Greco ha regalato una serie di lezioni che li hanno appassionati tanto da far diventare la tomba di Kha (architetto al servizio del faraone Amenofi III, ndr) oggetto del programma di maturità. E poi ci sono loro, i nuovi italiani, gli immigrati. “Solo in Val Padana abbiamo 1,1 milioni di egiziani. L’Italia ha l’onore e l’onere di custodire una collezione che italiana non è, ma appartiene al mondo. Il mio desiderio è che il museo egizio diventi la più grande ambasciata dell’Egitto fuori dall’Egitto, un luogo in cui gli egiziani possano sentirsi a casa, in cui poter percepire la gratitudine dell’Italia nei confronti del loro paese”. 

Un episodio poco edificante

E non poteva mancare, a questo punto, la domanda sullo scontro, amplificato dai media, tra Christian Greco e Giorgia Meloni, segretario del partito “Fratelli d’Italia”. La Meloni nel febbraio 2018 ha accusato Greco di avere un atteggiamento di favore nei confronti dei cittadini arabi. “L’anno scorso sono stato attaccato pesantemente da un membro del parlamento e segretario di partito che ha protestato per gli sconti offerti con l’iniziativa: «Fortunato chi parla arabo». Dopo quell’episodio, tutti, dalla CNN, a El País, al New York Times, volevano parlare con me. Ma io non ho parlato con nessuno. Parlerei volentieri con loro, ma non di queste polemiche, bensì di quello che siamo e che facciamo”. 

Apriamo una parentesi e aggiungiamo alcuni dettagli. L’episodio riportato risale a circa un mese prima delle elezioni politiche nazionali del 4 marzo 2018, dunque in piena campagna elettorale. Giorgia Meloni si era presentata sotto il museo con uno striscione riportante la scritta “No islamizzazione”. Greco era sceso in strada per spiegare i motivi dell’iniziativa, peraltro evidenziati nel sito del museo: “stimolare la fruizione dell’offerta culturale della città per consentire ai cittadini di lingua araba di essere sempre più parte della comunità con cui hanno scelto di vivere”. Greco aveva portato con sé il catalogo della collezione e un biglietto gratuito, che poi ha regalato alla Meloni invitandola a visitare il museo. Cosa che il segretario di “Fratelli d’Italia” non ha fatto. Successivamente “Fratelli d’Italia” aveva diffuso una nota nella quale specificava che, se fosse andato al governo, avrebbe riconsiderato le nomine del ministero dei beni culturali. Cosa tuttavia non fattibile essendo il museo torinese retto da una fondazione privata. Già un anno prima l’iniziativa “Fortunato chi parla arabo” aveva avuto luogo e anche Matteo Salvini si era espresso criticamente su Facebook. Testualmente: “Questa la pubblicità con cui Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, fino a marzo offrirà biglietti scontati (due al prezzo di uno) solo ai visitatori che sanno parlare in lingua araba. Sei italiano e parli italiano, o piemontese? Sei sfortunato, paghi tutto. A me sembra una roba da matti. A voi?”. Chiusa parentesi. 

Salvini oggi è al governo e gli episodi suddetti appaiono premonitori di una politica che sembra non avere in grande considerazione né la cultura in generale, né l’integrazione tra culture in particolare. Ma torniamo a Christian Greco.        

Museo come ponte tra diverse culture e promotore di integrazione

“A seguito di quell’iniziativa è venuta una famiglia di egiziani, in Italia da 25 anni. Genitori della mia età con i loro figli. Il marito autista, la moglie donna di servizio. Non sapevano che esistesse il museo egizio. Erano vestiti benissimo, lui in giacca e cravatta, lei in abito lungo. Sono entrati, dovevano starci un’ora e sono rimasti sei ore. Alla fine ci hanno detto che non si aspettavano di vedere che gli italiani facessero la fila per venire a conoscere la cultura del loro paese, la cultura «di noi egiziani che in Italia siamo gli ultimi». Questa famiglia e la felicità e la fierezza che ho visto nei loro occhi ci fa capire quanto c’è da fare nell’immigrazione. Questa e tante altre iniziative, al di là delle critiche, sono state attuate per dire che il museo esiste. Per dire:«venite, siete i benvenuti»”. 

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.