EXPO e fannulloni: prove tecniche di giornalismo d’accatto

expoduomoIl Corrierone spara ad alzo zero e la notizia viene poi amplificata dagli altri media. Il mondo dei social insorge.

Lo scottante argomento che ha trasformato la rete in un campo di battaglia è il processo di selezione di giovani per Expo, candidati alle funzioni di stagisti, operatori e manager che, a quanto riferisce il primo articolo, avrebbero schifato in massa stipendi, rispettivamente, di 500, 1400 (in media) e 1700 euro al mese.

Cominciamo da un artefatto prima di addentrarci sui numeri: l’uso del termine manager impiegato da molti, ma non per fortuna presente nell’articolo originale, è errato. Chi ha dimestichezza con un lavoro vero in un contesto multinazionale sa che con il termine manager si indicano, a beneficio della proprietà straniera, coloro che hanno un contratto da dirigente: parliamo quindi, al minimo, di almeno 2500 euro netti, non di 1600-1700.

Veniamo ora al dato saliente e, per farlo, virgolettiamo l’articolo originale: “alla fine si può considerare che circa l’80% delle persone arrivate a un passo dalla firma abbia lasciato spazio ad altri”. Dato asettico, per il momento, ma al quale si aggiunge, però, nell’edizione online il link a un video sopra il quale campeggia la scritta: “I giovani rinunciano all’Expo, una generazione non abituata al lavoro”.

A supporto di questo titolo piuttosto perentorio, la disamina del lungo e laborioso processo di selezione operato da Manpower, una società specializzata nella fornitura di lavoro temporaneo, quello che i gufi e le civette chiamano, più propriamente, “precario”.

Ecco che nella mente del lettore medio, martellato ogni giorno da notizie non confortanti sull’occupazione, aprirsi come ad un novello Siddharta Gautama uno spiraglio nella mente, spiraglio nel quale penetra un accecante raggio di luce. “Oddio” esclama tra sé e sé il lettore, “ma non sarà che il tasso di disoccupazione tra questi giovinastri passa il 40% perché non hanno voglia di lavorare”?

E sì, perché il dubbio viene. Ma, come in precedenza accennato, la rete insorge e anche Manpower, attraverso il suo responsabile delle relazioni esterne, rettifica. Si scopre così che i tassi di abbandono non sono riferibili al complesso delle figure da coprire, ma solo a una delle categorie, che il processo di selezione è stato troppo farraginoso e scoraggiante, che, fatti quattro conti, per chi risiedeva fuori Milano il rapporto tra costi e benefici era a indubbio vantaggio dei primi, e via di questo passo.

Vi risparmio i succosi racconti sull’opacità della proposta economica e sulle consistenti pretese, in termini di orario, richieste a fronte della medesima, mi limito solo a ricordare quanto poi puntualizzato da Manpower e che è rintracciabile in rete:

1) il roboante 80% si ridurrebbe a un 46%;

2) questo pur elevato 46% non si riferirebbe alla totalità delle posizioni ricercate, ma solo a due specifiche figure.

Chi scrive non è un professionista della carta stampata, ma un modesto dilettante, come il prof. Varoufakis in confronto all’eminenza grigia dell’economia mainstream euoropea.

Ma qualche domanda se la pone. La prima è se non si usa più, quando si forniscono dati, cercare di comprenderne la puntuale portata (parliamo dell’80 o del 46%?) e la definizione (parliamo del totale delle posizioni o di un suo sottoinsieme?).

La seconda è se non sarebbe meglio evitare furbeschi accostamenti tra accuse agli aspiranti dipendenti Expo di essere una generazione non abituata al lavoro e dati grezzi gonfiati e falsi. Dati, peraltro, rispetto ai quali non si sono fatte specifiche survey per analizzare i motivi dei tassi di abbandono (i ragazzi non hanno voglia di lavorare, o si sono trovati un’alternativa migliore?). No, non ci siamo.

Questo non è buon giornalismo. Non si verificano i dati con la dovuta cura, si confondono sottoinsiemi con la totalità, si ammicca al fancazzismo. Questo comportamento ha un’aggravante: butta fango su una generazione in pena e che, guardando alle statistiche sull’occupazione, ha poche speranze di trovare un lavoro. Ci si chiede, a questo punto, cui prodest un articolo del genere. Di certo non al paese, forse a qualcuno che sta cercando un alibi per la persistenza degli alti tassi di disoccupazione giovanile. A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina.

di Joe Di Baggio

foto: vita.it

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