Settant’anni fa nasceva la Repubblica Italiana

Repubblica ItalianaIl 2 giugno di settant’anni fa gli Italiani si recavano alle urne per decidere il proprio destino: monarchia o repubblica? Vinse la repubblica, con uno scarto di quasi due milioni di voti, e il paese cambiò. Questa la sintesi di un processo durato oltre un secolo, da quando, cioè, Giuseppe Mazzini, nel 1831, in esilio a Marsiglia, aveva fondato la Giovine Italia, vagheggiando per primo un’Italia unita e repubblicana.

Non va dimenticato che, oltre che per aver definito la questione istituzionale, il referendum del 2 giugno è passato alla storia perché, per la prima volta in Italia, le donne hanno avuto accesso al voto, in una consultazione di carattere politico e perché, contestualmente, si è votato anche per la Costituente, cioè l’assemblea che ha prodotto la vigente Costituzione.

Anche se mai accantonata dagli irriducibili repubblicani (che, col tempo, furono affiancati nella loro aspirazione anche dai socialisti, dai comunisti e dai radicali) la “questione istituzionale” si pose in termini irrinunciabili quando, all’alba del 9 settembre 1943, a seguito dell’armistizio sottoscritto con le potenze alleate, il Re d’Italia, Vittorio Emanuele III, abbandonò la Capitale, praticamente indifesa, alla mercé delle truppe tedesche.

La “fuga” del sovrano fu talmente più grave e disastrosa, per il Paese, in quanto fu accompagnata da quella del Capo del governo, Maresciallo Badoglio, dei ministri militari e dei massimi esponenti dell’esercito; inoltre alle due divisioni corazzate, inizialmente schierate per difendere Roma, fu ordinato di coprire il convoglio in ritirata. Le altre formazioni militari rimasero prive di ordini. Nella confusione generale, nacque a Roma la Resistenza italiana, ad opera soprattutto dei partiti repubblicani (socialisti e comunisti – come detto – mentre i radicali e il PRI si erano temporaneamente fusi nel Partito d’Azione).

Ben presto, però, i nodi vennero al pettine. Il re fu costretto a trasferire tutti i propri poteri al figlio Umberto, cui fu attribuita la carica di Luogotenente del Regno, fino alla liberazione del Paese dalle truppe tedesche, quando sarebbe stato il popolo italiano a scegliere la forma dello Stato, eleggendo un’Assemblea Costituente. Ma, a guerra finita, sorsero i problemi. Il re e il suo Luogotenente, infatti, cominciarono a traccheggiare. Con la sua scusa delle oggettive difficoltà operative ad allestire nuove elezioni, il giorno del verdetto cominciò a slittare e passò un buon anno. Sinché, il 16 marzo 1946, con decreto luogotenenziale, si stabilì che, contestualmente alle elezioni della Costituente, si sarebbe tenuto un referendum per la scelta istituzionale tra monarchia e repubblica.

Oggi, a settant’anni di distanza e dopo che gli italiani si sono espressi in numerosi e variegati altri referendum, possiamo affermare che l’indizione del referendum fu soprattutto un’inaspettata ciambella di salvataggio per la monarchia. Si concesse a Casa Savoia, infatti, di rivolgersi direttamente agli Italiani, senza passare per i partiti democratici, che – tranne il Partito liberale – erano tutti favorevoli alla repubblica. Anche la Democrazia Cristiana – che, poi, si sarebbe rivelato come il partito di maggioranza relativa – infatti, si era espressa per la repubblica, pur lasciando libertà di coscienza agli elettori.

A nemmeno un mese dal referendum, poi, un altro colpo di scena: l’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore di suo figlio Umberto che, da Luogotenente del Regno, assunse la corona d’Italia con il nome di Umberto II. L’abdicazione era illegale, in quanto il decreto che indiceva il referendum, firmato dallo stesso Umberto, parlava chiaro: il regime “luogotenenziale” sarebbe dovuto rimanere in vigore sino a referendum avvenuto e si fosse ufficialmente preso atto della scelta popolare. Il furbo sovrano, infatti, si guardò bene dal farsi controfirmare l’abdicazione dal Presidente del Consiglio, come previsto dallo Statuto Albertino, per ogni suo atto ufficiale, ma espresse la sua volontà con un semplice atto notarile privato.

Il Presidente del Consiglio De Gasperi minimizzò e convinse gli altri membri del governo a prendere atto dell’abdicazione. Non si è mai saputo se De Gasperi fosse talmente sicuro della vittoria della repubblica e, pertanto, abbia preferito evitare sterili polemiche o non si sia reso conto che l’abdicazione dell’ormai screditato Vittorio Emanuele avrebbe portato altra acqua al mulino della monarchia; Umberto II, infatti, ora avrebbe potuto facilmente asserire di non essere responsabile di tutti gli errori commessi dal padre a danno del popolo italiano, quali il coinvolgimento della monarchia con il fascismo, la soppressione dei partiti e della democrazia, le leggi anti ebraiche, la disastrosa guerra d’aggressione e, infine, la “fuga” da Roma del 1943.

Il referendum, comunque, si svolse abbastanza tranquillamente. Il 10 giugno, furono proclamati i risultati (allora gli scrutini avvenivano molto lentamente; d’altronde, erano più di vent’anni che non si votava!) e il verdetto fu favorevole alla repubblica per quasi due milioni di voti. A questo punto, il citato decreto luogotenenziale di indizione del referendum prevedeva che, in caso di vittoria della repubblica, il capo del governo avrebbe assunto le funzioni di Capo provvisorio dello Stato. De Gasperi, sempre rispettoso delle prerogative regie, il giorno 11 salì al Quirinale per comunicare al re la decisone del governo di dare attuazione alla norma.

Umberto II, inizialmente, non manifestò alcuna obiezione ma chiese soltanto 24 ore per decidere ed organizzarsi. Era preparato all’annuncio, re Umberto, tanto è vero che nei giorni immediatamente precedenti, aveva dato disposizione ai suoi familiari di lasciare l’Italia, come infatti fecero. Furono i monarchici, invece, che non vollero “starci”.

A Napoli, dove una sede del PCI aveva già esposto un tricolore senza lo stemma sabaudo, i sostenitori della monarchia tentarono l’assalto e si dovettero chiamare i carabinieri che furono costretti a sparare sulla folla, lasciando sul terreno nove cadaveri. Nel frattempo, altri irriducibili “più reali del re” convinsero Umberto II a resistere ad oltranza, adducendo i più svariati pretesti formali che il sovrano fece propri.

Di fronte a una possibile degenerazione della vita pubblica, il Consiglio dei Ministri, riunitosi nella notte tra il 12 e 13 giugno, aderì allo slogan di Pietro Nenni “o la repubblica o il caos” e approvò all’unanimità l’assunzione delle funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano, da parte di Alcide De Gasperi. Al re ormai deposto, non rimase altro che lasciare il paese, imbarcandosi all’aeroporto di Ciampino su un aereo militare diretto a Lisbona.

La partenza dell’ex re fu assolutamente volontaria ma il saluto d’addio fortemente polemico. Umberto diffuse un “proclama” agli italiani, ventilando addirittura al “colpo di Stato”. Seguì l’immediata risposta di Alcide De Gasperi, che lo definì “un documento penoso, impostato su basi false ed artificiose” e che si concludeva con la frase: “un periodo che non fu senza dignità si conclude con una pagina indegna. Il governo e il buon senso degli italiani provvederanno a riparare questo gesto disgregatore, rinsaldando la loro concordia per l’avvenire democratico della Patria”.

 Era nata la Repubblica Italiana.

di Federico Bardanzellu 

Foto: Archivio di Concorezzo

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