Natale, la minaccia dell’inquinamento commerciale

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La terza tappa dell’Avvento è denominata Domenica “gaudete” ed è un giorno in cui bisogna abbandonare la mestizia dell’attesa e “gioire”, ci dice l’antifona d’ingresso della S. Messa, perché il Signore è vicino. Ma cosa vuol dire che il Signore è vicino?

Come intendere, oggi, questa vicinanza di Dio? L’Apostolo Paolo, scrivendo ai Filippesi, esorta a rallegrarsi perché la venuta di Gesù è sicura. Scrivendo ai Tessalonicesi, inoltre, afferma che nessuno, tuttavia, può conoscere il momento in cui il Signore verrà (cfr 1 Ts 5,1-2) e mette tutti in guardia, quasi che il ritorno di Gesù fosse imminente (cfr 2 Ts 2,1-2). In questi termini, la Chiesa primitiva iniziava a comprendere che la “vicinanza” di Dio non si riferiva soltanto ad una dimensione spazio-temporale ma ad una questione di amore. Ed è vero! L’amore avvicina più di ogni altra cosa e il Natale ormai prossimo, infatti, non farà altro che ricordarci questa grande certezza: “L’amore avvicina più di ogni altra cosa”, verità che trova la sua più bella espressione nella realizzazione del Presepe, momento attraverso il quale possiamo sperimentare l’essenza della gioia cristiana che è il volto di una persona vera, di un neonato, di Gesù, venuto tra noi ‘per amore’.

Anche oggi, il Signore è vivo e sta in mezzo a noi e rischiamo di non riconoscerlo se lo immaginiamo come l’eroe di un messianismo umano, un teorico di fratellanza e di felicità terrestre, un taumaturgo straordinario. Il segreto della sua identità mostra un’attenzione particolare ai poveri e agli umili. Dopo aver celebrato la festa dell’Immacolata, entriamo nel vivo dei giorni natalizi che ai nostri occhi, purtroppo, subiscono un “inquinamento troppo commerciale”. Le conseguenze più immediate deformano il vero senso del Natale, custodito per così lunghi secoli dalla tradizione e che, appunto, si esprime fondamentalmente attraverso uno spirito di preghiera, di raccoglimento, di sobrietà e di gioia, non esteriore ma intima. Guardando all’attuale scenario socio-economico della nostra nazione, credo ci sia bisogno, oggi più che mai, di sobrietà. Il Dio che accoglieremo nella notte di Natale viene per rimanere “povero”; una dimensione inconsueta questa, per la storia di una religione.

Ne dà prova il fatto che la prima lettura (Is 61, 1-2.10-11) ci presenta il pensiero di tutta una linea profetica, il cui messaggio, rivolto agli Ebrei del tempo, annunciava in toni solenni la venuta del Messia secondo categorie di potenza, vittoria e dominio. E invece Gesù, il vero Messia atteso da secoli, sconvolge ogni canone e viene in umiltà “per ricolmare di beni gli affamati”. I poveri, infatti, non godendo di alcuna sicurezza materiale, sono i più disponibili a ricevere l’annuncio della salvezza, sono i più attenti all’ascolto della Parola di Dio e come Maria, quindi, sono sempre fedeli alla Legge di Dio.

Noi che stiamo bene possiamo incorrere in un pericolo, quello cioè di non fare praticamente nulla (non è il nostro caso, grazie a Dio!) per cambiare radicalmente l’amara sorte di tanta povera gente, oggi, purtroppo, bisognosa di tutto. È troppo comodo parlare della gioia messianica, è ancor più comodo elencare le troppe gioie del Natale commerciale quando al nostro fianco vivono fratelli e sorelle che non hanno nemmeno il pane quotidiano. E noi ‘cristiani’, non dovremmo forse essere ‘come Cristo’, che in terra ha avuto viscere di compassione, guarendo malati e moltiplicando pani? Tendiamo, quindi, le nostre mani, consegneremo ai poveri Cristo in persona, la vera speranza messianica che si rende viva fraternizzando, soccorrendo, condividendo gioie e sofferenze. In questi termini, certamente renderemo più credibile l’amore e più tangibile l’avvento di un mondo migliore.

 Nella terza tappa dell’Avvento la liturgia ci fa meditare un brano, composto da due parti, tratto dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 1, 6-8.19-28): nella prima parte leggiamo alcuni versetti del famoso “Prologo” dell’evangelista; nella seconda, invece, ancora una volta il racconto evangelico del Battista che invita ad attendere “Colui che deve venire”. A questo punto è necessario porci un altro interrogativo e cioè: veramente l’uomo oggi, attende Dio, sa cosa significa ‘attendere Dio’? Ho provato a rispondere e riflettendo credo che l’uomo della nostra epoca, sì, attende Dio ma non riesce ad ammetterlo perché ha bisogno di un ‘altro Giovanni’ che lo educhi e che lo accompagni a conoscere un nuovo senso di Dio più purificato, più spoglio di sovrastrutture culturali, etiche e religiose che lo catapultano continuamente in un passato ormai remoto e che non c’è più.

Dio non è ciò che noi vogliamo. Attendere Gesù oggi, significa – così come fece il Battista – “essere testimoni” cioè, uomini che hanno deciso di intraprendere un cammino di spogliazione di sé stessi, uomini che si sono svestiti di ogni ambiguità per appartenere solo a Dio. Il Vangelo di oggi non ci presenta un’utopia, né un sogno o un mito. Nel corso del tempo, tra tanti uomini della terra ce n’è uno “mandato da Dio e il suo nome è Giovanni”.

Il testimone di Gesù è un uomo vero, concreto a cui Dio ha affidato la precisa missione di “rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui”. Giovanni il Battista, quindi, ha il compito di testimoniare che dentro l’oscurità della sua epoca, corrotta e malvagia come la nostra epoca, c’è una luce: l’incarnazione di Dio. Per vedere questa luce, però dobbiamo aver fede, bisogna credere. Invochiamo Maria, donna di grande fede, perché possiamo riconoscere nel Bimbo di Betlemme il Figlio di Dio che ci salva. Camminiamo spediti assieme a Lei verso la grotta, accogliendo l’invito della liturgia ad essere nello stesso tempo vigilanti e gioiosi.

Fra’ Frisina

Foto: eticamente.net

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