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Quel che colpisce il lettore dei vangeli, credente e non, è il carattere per così dire confidenziale, domestico dell’insegnamento di Gesù, che sembra una lezione di vita non già imposta ma suggerita, in un tono volto a convincere più che comandare e che l’evangelista narratore spesso riesce a rievocare. Nel novero dei grandi maestri spirituali, Gesù si distacca dai suoi omologhi tanto da apparire (uso una terminologia veterotestamentaria) un “profeta minore”.
Budda e Lao Tse sono due filosofi, due saggi, due anime elette, ma a loro modo sono esoterici, iniziatici, elitari. Le religioni che ne sono derivate hanno ben poco a che fare con le loro dottrine. Popolarizzano, traducono, vengono a patti con una visione ben più modesta. E come tutte le confessioni popolari si riempiono di credenze vaghe, di riti propiziatori, di santità eroiche mitizzate e irraggiungibili.
La predicazione di Gesù è alla portata di tutti, è comprensibile da tutti e da tutti accessibile nelle sue prospettive e nei suoi traguardi.
Alla ricerca del prossimo
Il “prossimo” è un termine che Gesù riprende da un monito biblico, ma avverte che, pur essendo così antico e radicato, ha bisogno d’un chiarimento. E lo fa rispondendo alla domanda di un dottore della legge. Così nel vangelo di Luca (10-25:37):
“Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: chi è il mio prossimo?”
E qui nel testo segue la parabola del buon samaritano. Un uomo aggredito e depredato viene abbandonato per strada pesto e ferito. Tre passanti lo notano, due lo ignorano, il terzo lo soccorre. Stranamente, come a rispondere alle domande degli astanti, Gesù dice che il prossimo è colui che ha avuto pietà del sofferente.
La spiegazione è assurda: chiaramente tra traduttori e copisti il testo è stato travisato. Se l’esortazione “ama il prossimo tuo come te stesso” significasse “sii riconoscente a chi ti fa del bene” non sarebbe senza senso ma sarebbe ovvia e inutile. Chi parla in nome di Dio non può raccomandare la buona educazione!
Lo spirito della parabola
Ma lo spirito della parabola è palese. Essa è così congegnata: i due insensibili testimoni del fatto sono un levita e un sacerdote. Il soccorritore è un samaritano, cioè un soggetto a quel tempo socialmente malvisto e osteggiato. Quel che Gesù vuole evidenziare non è tanto la differenza del comportamento quanto la nota che accomuna i tre soggetti. Una costante della predicazione di Gesù è la condanna dei potenti e la predilezione per i vinti. E qui non perde occasione per ripetersi.
Ma non è qui il succo della storia. La nota saliente è la mancanza di un legame fra il ferito e i tre che lo incontrano. Nessuno lo conosce.
Il Levita “per caso” (letteralmente nel testo) passava di là.
Il sacerdote per coincidenza “faceva la stessa strada”.
Il samaritano si trovava in quel posto “perché era in viaggio”.
Dunque il prossimo può essere l’estraneo, ma è colui che comunque ti sta o ti capita vicino, colui che entra in contatto con te, che entra nella tua sia pur ristretta orbita esistenziale: il parente, l’amico, il mercante, il passante, il servo, il mendico.
L’esortazione morale entra nella misura della tua vita, non indica ampi spazi e lontani ideali, non prescrive atti sublimi né compiti sovrumani.
Per ideali sublimi a compiti sovrumani si è versato sangue per oltre duemila anni da quel giorno, nelle guerre di religione: il sangue della parabola è solo quello del ferito che il soccorritore tampona e deterge con gli umili ma preziosi ausili di cui dispone, l’olio e il vino.
Pur nella familiare esemplificazione, l’esortazione morale non perde il suo valore universale.
Pressato dagli eventi attuali, mi sorge un pensiero anacronistico: se un capo di Stato avesse chiesto a Gesù “chi è il mio prossimo?”, la risposta sarebbe stata “il confinante”.
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