L’urlo nero-verde dell’Aquila

IMG_20110911_112325

Attraversi monti e gallerie, per strada tutto sembra non in rovina, ma in costruzione: piccole case nuove, coloratissime, sparse qua e là, ed alcuni palazzi in costruzione. Tiri un sospiro di sollievo ma in realtà stai ancora aspettando.

Dopo una lunga galleria finalmente eccola lì, ai tuoi piedi: l’Aquila. Diverse gru svettano sui palazzi che tutto sommato sembrano ancora in piedi, non capisci. Le gru sono immobili.

Con l’auto costeggi la città e allora inizi realmente a vedere: le antiche mura sono crollate, diversi palazzi sono sostenuti sulla facciata da pesanti imbracature, scheletri di acciaio e legno a sostegno di corpi rimasti vuoti. Alcuni palazzi non hanno costruzioni di sostegno, sono lì, con le loro ferite esposte, buchi enormi che li ripiegano su se stessi, diverse stanze sono nude, esposte alla luce del giorno, in alcune ancora si possono intravedere una credenza aperta o un tavolo spaccato, segni tangibili di vita passata. Ti spiegano che quelli sono i palazzi di categoria E, la più grave, della quale fanno parte i palazzi che si spera comunque ancora di ricostruire, o forse addirittura palazzi di categoria F, ovvero quelli che, con ogni probabilità, verranno abbattuti.

La categoria non rispetta la geografia dei quartieri né la vicinanza delle case: quasi come uno sberleffo palazzi pressoché integri si ergono accanto a case in rovina, anche pochi metri sono sufficienti al cambiamento di terreno che ha consentito il divario di sorti. Il vicino con cui un tempo venivano scambiati favori forse non vedrà mai più la sua casa.

La maggior parte delle strade e dei quartieri sono comunque chiuse e ancora controllate a vista dall’esercito. Chiunque voglia recuperare i propri beni deve essere accompagnato dalla protezione civile, mai più di uno per volta e sempre muniti di casco di protezione. È così che gli aquilani raccolgono i resti di una vita nelle loro case, come ladri, con la stessa forza struggente di chi sfugge alla catastrofe cercando di non guardare indietro troppo a lungo perché tanto non serve.

Ma dove vanno gli aquilani? Alcuni hanno avuto la fortuna di avere case in campagna o al mare dove trasferirsi, per pochi sono state fornite case nuove, si riconoscono dal colore sgargiante  degli intonaci, quasi una corolla beffarda intorno alle rovine del centro. In questi stessi palazzi o nelle decine di container sparsi nelle strade limitrofe si sono concentrate tutte le attività commerciali un tempo residenti nel centro. Le Pagine Gialle non servono più a L’Aquila, sono nate le Pagine Nero-Verdi, i colori della città fin dal terremoto del ‘700: il nero del lutto ed il verde della speranza. Tutti i nuovi indirizzi, le strade, le rotonde ora si possono trovare lì.

La ricostruzione inizia dai palazzi di categoria A, i più semplici da rimettere a posto, e prosegue giù fino all’ultima categoria, ma dopo più di due anni dal terremoto la lentezza delle operazioni assume toni esasperanti: in molte zone manca l’acqua il che rende impossibile procedere con i cantieri, in altre si è ancora in attesa dell’approvazione dei progetti.

Gli aquilani sono come le loro case: le viscere dolenti, esposte, crepe, crolli, ma sono ancora in piedi e sembrano sorreggersi l’un l’altro per il solo fatto di essere lì. In tutti i racconti c’è un prima e un dopo terremoto. Un tempo zero che ha posto fine al passato così come lo si può ricordare, per un futuro incerto e ancora da formare. Esistono nella mente e nella memoria luoghi e significati che appartengono per sempre, inesorabilmente, al passato, esistono i racconti di “quei giorni”, e infine esiste il dopo, il pericolo scampato ed il lutto lungo e costante di chi non sa più cosa aspettarsi. Per gli anziani è esattamente come la guerra: lo stesso prima distrutto di colpo, e lo stesso dopo incerto che può diventare racconto solo in seguito alla lunga digestione consentita dal passare degli anni.

Tutto quello che non è nuovo è distrutto: è così sia per le cose che per le persone. Questa tremenda consapevolezza li rende tristi: gli occhi spenti di chi ogni giorno deve trovare nuovi motivi per andare avanti senza voltarsi indietro. Gli aquilani ti accompagnano per le strade del centro con indulgenza verso la tua espressione sconvolta: tu avrai solo una storia in più da raccontare, ma solo loro sapranno davvero cosa è significato essere lì due anni fa, solo loro sanno cosa era prima e la fatica che si fa a sorridere con quella ferita dentro mentre camminano per strada.

Il centro dell’Aquila è rimasto esattamente com’era, congelato nel suo dolore. Passi accanto alla tristemente nota casa dello studente di via XX Settembre: tra due palazzi disposti ad angolo c’è un’enorme incavo che arriva fino alle fondamenta ormai ripulite dalle macerie. Non è rimasto nulla se non i segni del distacco sui muri dei palazzi accanto. La zona è completamente chiusa, sulla rete che quasi ne impedisce la vista foto, messaggi, poesie e di fronte volti sconvolti come il tuo, volti di chi per la prima volta si rende realmente conto e prova solo ad immaginare l’odore, il rumore, la sensazione e la paura, il terrore di un corpo senza più sostegno, terrore ancestrale, incubo primordiale.

Il centro storico è zona rossa, tutto e per tutti, ovunque ti giri vedi quella mano alzata, palmo teso verso di te, impressa su ogni cartello a sbarrarti la strada. È stato aperto solo il corso principale, e da lì, come una lenta processione, tutti noi possiamo osservare quel tempo zero, quell’istante del terremoto: il cinema espone ancora la locandina di “Gli amici del bar Margherita”, il film in programma quella sera, la vetrina di Marella riporta sul vetro la scritta “Nuova collezione spring-summer 2009”. Tutto il resto dentro i palazzi non è visibile, sono saracinesche abbassate, da qualcuna si riescono a intravedere le macerie all’interno.

Troviamo un paio di bar aperti, quando entriamo a bere un caffè possiamo vedere le crepe dall’interno, le mura scrostate lasciate lì in bella mostra perché chi ha lottato non vuole che il coraggio e la forza di cui ha necessitato vengano cancellati. Sulla parete in fondo è esposto il cartello che per mesi ha campeggiato fuori dalla porta: “Chiuso dal 06/04/2009 si riapre il …?!” la data di effettiva riapertura è stata aggiunta dopo in verde. Anche lì dentro il tempo si è fermato, ma è una scelta perché tutti i fantasmi restino in vita fino a che non potranno davvero e definitivamente essere dimenticati.

Il popolo dell’Aquila è orgoglioso nel suo dolore, non cerca la compassione di nessuno, sa reagire da sé, per la strada campeggiano scritte come “jemo’nnanzi” o “Terremo Tosto”. Arrivati a quello che gli aquilani chiamano “i quattro cantoni”, ovvero l’incrocio principale del vecchio corso, su una delle reti di protezione sono legate decine di chiavi: “Queste sono le chiavi delle nostre case appese alle transenne come le nostre speranze”.

Esattamente un anno fa il premier Berlusconi dichiarava al quotidiano francese Le Figaro «abbiamo ricostruito una città intera» dimenticandosi però di dire che non si trattava dell’Aquila bensì delle nuove case costruite nei dintorni e ancora del tutto insufficienti.

C’è silenzio, nonostante sia incessante il via vai in questa domenica mattina, quasi fossimo in un santuario, quasi come se avessimo paura, alzando la voce, di infrangere l’equilibrio così precario delle mura intorno. Sei lì a leggere, fotografare ed osservare il dolore e la rabbia altrui e ti senti non autorizzato, un intruso. Per quanta empatia tu possa avere a disposizione sarà sempre uno sguardo distante, macabro.

Poi leggi le parole che Patrizia Tocci scriveva sul quotidiano locale “Il Centro” il 10 agosto 2010, nel suo invito “Venite all’Aquila”: “Potrete discutere di responsabilità, progetti, finanziamenti, ritardi, norme, tempi, crono- programmi. O forse non parlerete, per un po’. Continuerete a scattare foto pensando che il disastro non vi era sembrato così grande. Scattate tutte le foto che volete, ma testimoniate la verità. Date parole a quel poco che hanno potuto vedere i vostri occhi. Riferite che la nostra cocciuta ostinazione ha radici profonde. Che vogliamo tornare a viverci, nonostante tutto, nella nostra città morta e nei piccoli centri morti. E se qualcuno non vi crederà, ditegli di venire all’Aquila.  Non abbiamo altre prove a nostro favore.”

Scrivo dunque queste righe perché possiate sapere cosa si prova passeggiando per quelle strade; perché possiate ricordare che un popolo non può essere dimenticato solo perché non lo si trova più sulle prime pagine dei giornali; perché possiate sentire l’urlo dell’Aquila, ancora straziante, lunghissimo.

Basta aguzzare un po’ le orecchie ed anche voi potrete sentirlo sulle vostre teste quell’urlo nero-verde.

Claudia Durantini

IMG_20110911_110215IMG_20110911_111929IMG_20110911_111849IMG_20110911_114312IMG_20110911_113650orIMG_20110911_115600IMG_20110911_115138IMG_20110911_114756Casa_dello_Studente_2IMG_20110911_110237Casa_dello_studente_3IMG_20110911_110405IMG_20110911_113950IMG_20110911_113734

Foto di Claudia Durantini

Scrivi

La tua email non sarà pubblicata

Per inserire il commento devi rispondere a questa domanda: *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.