Luis Sepúlveda e la forza della fedeltà

«Ho sempre sostenuto che gran parte della mia vocazione di scrittore nascesse dal fatto di aver avuto nonni che raccontavano storie, e nel lontano Sud del Cile, in una regione chiamata Araucanìa o Wallmapu, ho avuto un prozio, Ignacio Kalfukurà, mapuche […] che al tramonto raccontava ai bambini mapuche storie nella sua lingua, il mapudungun».  Una dichiarazione che affiora dal ricordo di un mondo lontano sia nel tempo che nello spazio. Uno spicchio di Sud America dal sapore primordiale dove il rapporto con la natura è al centro della vita dell’uomo. Siamo tra le pagine introduttive di Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà, favola di Luis Sepúlveda sull’importanza della lealtà legata all’amore e al rispetto. 

L’esistenza di Sepúlveda è stata segnata dalla dittatura, dalla prigionia, perfino dalla tortura. Era un combattente che quando vestiva i panni del narratore assumeva il tono pacato e paziente del cantastorie. Le sue favole parlano delle grandi ingiustizie del mondo, ma le narrano attraverso la bontà dei sentimenti che vi fanno da contraltare. Nel caso di Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà la violenza dei conquistatori nei confronti degli Indios traspare da un racconto che parla soprattutto della lealtà di un cane nei confronti di Aukamañ, bambino (e poi giovane uomo) mapuche che considera come un fratello.

Gente della Terra

I mapuche sono gli Indios della Patagonia cilena da cui lo stesso Sepulveda discende. Le leggende che spiegano le origini del mondo e i valori fondamentali della vita sono un patrimonio da tramandare di generazione in generazione. I saggi del villaggio le narrano ai bambini per insegnare loro a crescere nel rispetto della natura e di tutte le sue creature. Non a caso la parola mapuche significa proprio Gente della Terra (da mapu= Terra e che=gente), Terra intesa come Madre Natura.

Per loro il rispetto della natura equivale a amare la vita. La fedeltà è una delle tante forme che può assumere questo amore. Lo sa bene il protagonista e voce narrante della storia: un cane che dopo essere scampato miracolosamente alla morte arriva nella casa del saggio mapuche Wenchulaf e viene chiamato Aufman (fedele) proprio per la lealtà dimostrata nei confronti della vita. La fedeltà inscritta nel nome racchiude sia il suo carattere che il suo destino. Lo stesso vale per a Wenchulaf, «che, fedele al significato del suo nome – uomo felice -, si occupava di intrattenere i bambini nell’ayekantun».

L’importanza del nome

L’importanza del sostantivo come parola portatrice di sostanza è ricorrente nel libro. Ogni nome in mapudungun che compare nel testo è un gesto d’amore verso ciò che viene nominato. E la natura ama essere nominata: «Durante l’estate uscivamo con il vecchio per rallegrare i ruscelli e le cascate, per rallegrare il bosco e i suoi sentieri, i pesci e gli uccelli, per rallegrare tutto quello che vive nominandolo con gratitudine, perché i mapuche, Gente della Terra, sanno che la natura si rallegra per la loro presenza, e l’unica cosa che chiede è che i suoi portenti vengano nominati con belle parole, con amore». Questo rapporto di assoluto rispetto per i doni del grande Ngünemapu (essere superiore che comanda su tutto ciò che è vivo al mondo) permette ai mapuche di inserirsi nel dialogo misterioso che mette in comunicazione tutti gli esseri viventi. 

Il branco di wingka (conquistatori stranieri) che cerca di mandare via i nativi dal loro territorio restano esclusi da questo dialogo. Avendo tradito la natura con la loro brama di conquista, hanno finito per sentirla estranea e ostile, per averne paura.  «Il branco di uomini ha paura. Lo so perché sono un cane e fiuto l’odore acido della paura. […] Il fuoco è stato acceso male e si spegnerà presto. Gli uomini di questo branco non sanno che lemu, il bosco, dà buona legna secca, allora basta chiederla dicendo mamüll, mamüll, e allora il bosco capisce che l’uomo ha freddo e lo autorizza a accendere il fuoco».

Fedeltà e ricongiunzione

La natura punisce l’empietà dei conquistatori e la loro violenza, e premia chi invece l’ha sempre trattata con amore, favorendo ad esempio la fuga dell’ormai giovane uomo Aukamañ . Ferito dagli stessi wingka che anni prima avevano rapito il suo cane, il giovane cerca la salvezza nei boschi. La pioggia cancella le tracce del suo sangue e Aufman lo protegge depistando gli aguzzini a cui dovrebbe consegnarlo. È qui che il cane dimostra la sua fedeltà all’unico vero padrone che abbia mai avuto. La ricongiunzione con Aukamañ è la sua ricompensa: «Mi stringe fra le braccia e nella lontana lingua della Gente della Terra mi dice chi non mi ha mai dimenticato, che ha sempre saputo che un giorno sarei tornato da lui. È il mio peñi, mio fratello. Sono il suo peñi, suo fratello».

L’affetto famigliare tra personaggi di specie diverse è un tema evidentemente caro a Luis Sepúlveda. Qui c’è la fratellanza tra un uomo e un cane, in La gabbianella e il gatto che le insegnò a volare c’era il rapporto genitore-figlio tra il gatto Zorba e la gabbianella Fortunata. Sono favole che insegnano che l’amore va oltre la diversità, che il rispetto per l’altro apre le porte alla saggezza, che in fondo siamo tutti parte di uno stesso disegno e che le differenze in fondo non esistono. Un messaggio importante che sopravvivrà sulla carta e nei cuori di chi legge anche se la voce che l’ha generato si è spenta troppo presto.

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