Luigi Pirandello: la realtà e l’io negli occhi della madre

luigi pirandello

La novella Colloquii coi personaggi (1915) di Luigi Pirandello si conclude con un insegnamento di grande valore: «Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle». In questa frase c’è la valutazione della vita nella prospettiva della morte. C’è la forza dello sguardo che modifica la realtà. C’è l’esortazione a “alzare la testa” dai dolori e dalle miserie della storia per accorgersi che in mezzo a tanta morte esistono anche cose eterne e per sempre belle, come «i giovani fusti d’acacia» che «indolenti s’abbandonano al vento». 

Gli occhi dei bambini

Per accorgersene basta tornare bambini (non ancora trasformati dalla storia) e attingere alla purezza originaria che conduce fuori dal tempo, come accade ai morti (non più toccati dalla storia) e ai personaggi di fantasia (mai toccati dalla storia). L’io narrante — che poi è Pirandello stesso — ci riesce sentendo nel vento la voce della madre defunta, che poco prima gli è apparsa sotto forma di ombra. Le madri sono coloro davanti ai cui occhi non si smette mai di essere bambini. Infatti il narratore dice: «Mamma? proprio in questo momento lasciarmi, partirti da quel tuo cantuccio laggiù, dove io venivo col pensiero a trovarti ogni giorno, quando più cupa e fredda mi doleva la vita, per rischiararmi e riscaldarmi al lume e al calore dell’amor tuo, che mi rifaceva ogni volta bambino…».

In effetti il momento in cui la madre lo ha lasciato non è facile. È il 1915, l’Italia sta per dichiarare guerra all’Austria e il figlio Stefano sta per partire volontario per una guerra in cui l’autore stesso ha sperato a lungo ma che non può più combattere a causa dell’età. Una sera però la madre gli appare sotto forma di ombra e gli racconta della sua infanzia. In particolare gli parla di quando, durante il risorgimento, suo padre fu esiliato e con tutta la famiglia dovette imbarcarsi per Malta. I genitori e i fratelli non riuscivano a smettere di addolorarsi per ciò che si erano lasciati dietro. Lei invece si guardava intorno e restava stupita per la bellezza della vela bianca che puntava le stelle, del mare quasi nero, dell’isola di Gozzo e di Malta. 

Lo sguardo della madre e la memoria del cuore

La realtà dunque ce l’abbiamo negli occhi e il modo in cui ci si rivela dipende da come e da cosa scegliamo di guardare. Ma Pirandello si spinge ancora più in là e ci dice che la nostra stessa esistenza dipende dagli occhi degli altri su di noi, in particolare quelli della madre. Ciò che l’autore rimpiange davvero della sua assenza è il se stesso che era iscritto nel suo sguardo: «Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per trent’anni t’ho data da lontano» ma «io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento».

Quello che però al momento del colloquio l’io narrante non sa è che la madre non è davvero perduta. La ritrova infatti nel vento che sussurra. Resta conservata nell’io profondo che giace sotto la coscienza. Quello che è capace di sentire la vita anche quando la coscienza razionale non vede altro che morte e che potremmo definire anche cuore. Lo stesso cuore che, dice la madre-ombra, «per quanto il tempo s’allunghi, serba dentro per sempre il primo stupore d’infanzia e il volto e le cure della mamma nostra e di nostro padre e la casa d’allora come essi l’avevano fatta per noi».

Foto di StockSnap da Pixabay

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