Lo Sperelli/D’Annunzio e la crisi dell’esteta

d'annunzio

Una delle risposte di Gabriele D’Annunzio alla crisi del ruolo intellettuale di fine Ottocento è l’estetismo. L’arte diventa il valore supremo, la vita si sottrae alle leggi del bene e del male per rispondere solo alla legge del bello, l’esteta si isola dalla realtà meschina della società borghese contemporanea per rinchiudersi in un mondo fatto di pura arte e bellezza. Lo scopo dell’intellettuale è evitare di farsi schiacciare dai meccanismi utilitaristici della società e recuperare la condizione di privilegio di cui aveva goduto in passato. Ma la scoperta che all’esteta manca la forza di opporsi davvero alla borghesia in ascesa porta ben presto l’autore a prenderne le distanze. È nel solco di questa crisi che nasce il primo grande romanzo di D’Annunzio: Il piacere (1889). 

Protagonista è Andrea Sperelli. Giovane aristocratico, artista proveniente da una famiglia d’artisti e “doppio” dell’autore stesso. Egli vive secondo il principio del «fare della sua vita un’opera d’arte». Tuttavia la sua debolezza di volontà trasforma questo intento in una forza distruttiva, che lo prosciuga di ogni energia morale. La resa dei conti con se stesso arriva al momento in cui — disgustato dal fatto che l’amata Elena Muti ha troncato la «passione altissima» e «inestinguibile» che li univa per sposare un ricco inglese in grado di sanare la sua difficile situazione economica — Sperelli si chiede «Chi era ella mai?», e nel cercare una risposta su Elena finisce per trovarne una su se stesso. 

La donna-ritratto

Mentre Sperelli traccia un ritratto impietoso dell’amata, si rende conto che Elena è il suo specchio e che descrivendola sta descrivendo anche se stesso: «Ben però, in qualche punto, egli rimaneva perplesso, come se, penetrando nell’anima della donna egli penetrasse nell’anima sua propria e ritrovasse la sua propria falsità nella falsità di lei; tanta era l’affinità delle due nature». Ecco allora che il disprezzo si tramuta in comprensione. Tale comprensione non ha niente a che fare con la bontà o il perdono. Prende anzi i connotati di una «fredda chiarezza» intrisa di «indulgenza ironica». 

Sorride di Elena, sorride di sé nel ricordare l’incontro con lei «avvenuto nel giorno di San Silvestro, più d’una settimana innanzi». Sperelli ricerca le regioni di quel colloquio tra vecchi amanti e riscontra che accadeva nella donna «un fenomeno a lui ben noto». Si tratta di «allucinazione sentimentale», che consiste nello scambiare un’infatuazione passeggera in una passione vera e profonda. Una menzogna alimentata dall’immaginazione, che trasfigura la realtà al punto da non permettere più al soggetto che ne è affetto di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. È dunque la forza dell’immaginazione quella da cui scaturisce la finzione, ovvero l’insieme di sublimazioni estetizzanti che percorrono tutto il romanzo. 

La finzione e la consapevolezza

La finzione in Il piacere porta in sé i concetti di vanità e inganno. Limitandoci al passo in oggetto, si possono riscontrare facilmente una gran quantità di riferimenti lessicali relativi all’arte della recitazione. Si pensi alle «finissime simulazioni» e alla «mimica sapiente» con cui Elena vela di alta spiritualità quelli che sono solo impulsi erotici; ai termini «capziosa» (“ingannevole”), «artifizio» e «giuoco singolare»; al riferimento alla «comedia umana» cioè alla concezione per cui i rapporti sono una recita, una finzione. Fino ad arrivare alla consapevolezza che «In fondo ad ogni atto, a ogni manifestazione dell’amor d’Elena» c’era «l’artifizio, lo studio, l’abilità, la mirabile disinvoltura nell’eseguire un tema di fantasia, nel recitare una parte drammatica, nel combinare una scena straordinaria». 

Prendere atto della «vaga incipriatura estetica» dietro cui si velano Elena e lui stesso, porta Sperelli a confrontarsi con la caduta di tutte le costruzioni estetiche che fino a quel momento aveva sempre sovrapposto alla vita. Siamo nel momento di massima consapevolezza dell’eroe, all’apice della crisi dell’estetismo dannunziano. D’Annunzio assume nei confronti dell’esteta un atteggiamento impietosamente critico e giunge alla conclusione che «dominare un’anima con l’artifizio, possederla tutta e farla vibrare come uno stromento […] può essere un alto diletto. Ma ingannare sapendo d’essere ingannati è una sciocca e sterile fatica, è un giuoco noioso e inutile».

Foto di Mihai Paraschiv da Pixabay

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