L’inesauribile segreto delle origini e della salvezza

«In memoria/di/Moammed Sceab/discendente/di emiri di nomadi/suicida/perché non aveva più/ patria» si apre così In memoria di Giuseppe Ungaretti, nel segno della perdita. Siamo nel primo componimento di Il porto sepolto, raccolta poetica comunemente considerata come un diario di guerra, e la prima figura che incontriamo è uomo che invece di morire in trincea rinuncia volontariamente alla vita perché nato con una mancanza. La mancanza della Patria, delle radici che costituiscono la base dell’identità.

Il problema dell’identità

Sceab non ha un’identità perché ne ha troppe e non si riconosce in nessuna di esse. Non riesce a essere l’arabo omonimo del profeta islamico, ma nemmeno il francese Marcel («Amò la Francia/ e mutò nome in/Marcel/ ma non era francese/e n0n sapeva più/vivere/nella tenda dei suoi/dove si ascolta la cantilena/del Corano/gustando un caffè»). Non è nemmeno un soldato, eppure la guerra tra nazioni è dentro di lui e si consuma come una sanguinosa crisi di civiltà. 

Allora Moammed Sceab decide di annientarsi perché se non è possibile essere un tutt’uno meglio essere un unico nulla. Ed è proprio lì, nel dopo, che pare ritrovare la sua serenità. Scrive Ungaretti in una delle sue lettere: «S’è ucciso. Sul comodino aveva posato una sigaretta. L’hanno trovato morto, vestito, steso sul letto, sereno, sorrideva. Hanno trovato la sigaretta spenta sul comodino. Aveva distrutto tutte le sue carte, manoscritti di novelle e di poesia, nel più puro francese, della più schietta invenzione». La sua morte è un imprevisto che si apre nella vita di Ungaretti, con cui divideva la camera parigina in rue des Carmes. Un dolore che tuttavia offre al precursore dell’ermetismo un’occasione di riflessione. 

Il bivio

Il defunto gli si presenta come uno specchio: anche lui nato lontano dalla propria terra d’origine (era libanese), anche lui con alle spalle un’infanzia egiziana, anche lui approdato a Parigi all’inizio degli anni dieci e provvisto di vocazione poetica. Eppure è proprio la poesia a tracciare il bivio che dividerà le strade dei due amici e farà sì che abbiano un destino tanto diverso. Sceab affonderà nel nulla della morte perché «non sapeva/sciogliere/il canto/del suo abbandono». Ungaretti invece riuscirà a salvarsi abbandonandosi all’immensità del mare leopardiano per immergersi nel tutto dell’«inesauribile segreto». 

Il porto sepolto

Ma per penetrare l’inesauribile segreto non basta lasciarsi trasportare dalle onde, bisogna farsi palombari e inabissarsi fino a raggiungere il luogo che lo custodisce. Quel luogo è il porto sepolto che dà il nome al secondo componimento della raccolta e alla raccolta stessa, un elemento che riporta al centro il tema dell’origine anche se in chiave del tutto diversa rispetto a In memoria. Si trova a Alessandria d’Egitto e pare che risalga all’età pre-tolemaica, ma nessuno l’ha mai visto. Sopravvive sotto forma di leggenda e se esistesse davvero proverebbe che Alessandria era una città portuale già prima di Alessandro Magno. 

Esso custodisce il mistero delle origini della città africana che è insieme luogo di nascita e di esilio del poeta. Un simbolo potente, la sede più giusta per l’unica vera origine in cui Ungaretti può riconoscersi: la fonte della parola poetica. Come afferma Carlo Ossola nell’introduzione all’edizione Marsilio del 1990: «Il Porto Sepolto è tutt’insieme il luogo dei reperti di profondità, archeologia dunque del segno, abisso baudelairiano, ed insieme nome favoloso d’infanzia, ricettacolo incontaminato di civiltà civiltà sepolte, di paradisi perduti, approdo mitologico, oasi dopo tappe e arsure di deserto; radice primordiale della parola, del canto cercato da Orfeo, […] e ritorno per sempre sepolto, perduto».

Illuminazione

Solo in un luogo talmente irraggiungibile da sfociare nel mito il poeta può trovare il senso ultimo delle cose. Cercarlo è come cercare un tesoro nel cuore della terra. Le coordinate sono fornite dal richiamo del canto e al posto di un forziere pieno di monete d’oro c’è un’illuminazione totale, istantanea e inafferrabile che può essere goduta ma non riportata in superficie.

Ha la stessa consistenza miracolosa dell’immenso che illumina il poeta in Mattina. L’unico modo per esprimerla è utilizzare un linguaggio essenziale fatto di termini vaghi e di silenzi che diano modo a quel «nulla/d’inesauribile segreto» di dispiegarsi senza limiti. Solo così la pagina poetica può aprire la strada alla pienezza della parola poetica senza tentare di esaurirla, e il poeta abitare quella parola per riscoprire se stesso e la propria origine.

Fonte foto: ilbolive.unipd.it

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