«Le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale alla vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come un essere umano».
È questa la suggestiva definizione che Italo Calvino dà alle fiabe nella lunga introduzione alle sue Fiabe italiane (Einaudi, 1956). Una frase lunghissima e priva di punti fermi in cui l’autore riabilita un genere snobbato dagli scrittori più ambiziosi, rileggendolo come una strada originale — da certi punti di vista preferenziale — per raccontare l’Italia e le sue radici.
Un’operazione patriottica
Raccogliendo duecento fiabe provenienti da ogni zona della Penisola e traducendole dal dialetto alla lingua nazionale, Calvino compie una vera e propria operazione patriottica. Il pastore che non cresceva mai da Genova, Le tre vecchie da Venezia, Prezzemolina da Firenze, Il re superbo di Roma, La finta nonna dall’Abruzzo, I tredici briganti dalla Basilicata, Il mercante ismaelita da Palermo… Sono tutti tasselli di una geografia che al Duomo di Milano e del Colosseo sostituisce principesse e cavalieri, draghi e folletti, oggetti incantati che sembrano una cosa e invece sono tutt’altro. È un’Italia del rovescio indagata nelle sue credenze, nei suoi desideri, nelle sue paure e nella sua voglia di redimersi dall’ingiustizia. Una nazione ancora frammentata che tuttavia si dimostra unita nella volontà di uscire da se stessa, e attraverso l’impossibile, approdare a una versione migliore di sé.
Eppure non c’è nessun intento filosofico o neo-risorgimentale alla base dell’opera. Il libro nasce solo per rispondere all’esigenza editoriale di costruire una raccolta di fiabe italiane da contrapporre alle più celebri di tradizione germanica. Un proposito accolto inizialmente con una certa titubanza da Calvino, che non si riconosce nei panni di nuovo Grimm e ha quasi timore della natura stratificata che il suo oggetto di studio ha tratto da anni di tradizione orale.
La filologia e l’arte
Tuttavia storia dopo storia, versione dopo versione, il progetto diventa per lo scrittore un modo appassionante di conciliare studio filologico e opera artistica. «Ero stato, in maniera imprevista, catturato dalla natura tentacolare, aracnoidea dell’oggetto del mio studio» afferma nell’introduzione. E prosegue: «non era questo un modo formale ed esterno di possesso: la sua infinita varietà ed infinita ripetizione. E nello stesso tempo, la parte lucida di me, non corrosa ma soltanto eccitata dal progredire della mania, andava scoprendo che questo fondo fiabistico popolare italiano è una ricchezza».
Riadattate per i bambini, le fiabe sono percorse da uno stile semplice e carezzevole. Calvino si pone come un nonno con i sogni ancora intatti che prende il nipotino per mano e lo porta con sé nel suo mondo fantastico. Qui non ci sono mezze misure. Da una parte gli istinti malvagi e dall’altra il buon cuore, che talvolta possono coincidere con il prima e il dopo dello stesso personaggio.
La verità nella magia
Al centro c’è sempre la magia che non conosce limiti né tempi fisiologici, che applica mutazioni istantanee tirando fuori la bellezza dalla bruttezza, l’animato dall’inanimato, la generosità dall’egoismo. E ci insegna che tutto può diventare altro perché in fondo tutto è fatto di una stessa sostanza che si esplica nell’ «infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste». Per questo – tornando alla definizione calviniana in apertura – le fiabe sono il catalogo dei destini che possono darsi a un essere umano nella parte della vita che è il farsi di un destino. Ed è proprio nel suggerire che in fondo niente è impossibile che sta la loro verità.
Anche Calvino finisce per essere avvolto e condizionato dalla meraviglia fiabesca, annebbiato da una magia che in fondo rende tutto più chiaro. «E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si presentava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo: e le vite individuali, sottratte al solito discreto chiaroscuro degli stati d’animo, si vedevano rapite in amori fatati o sconvolte misteriose magie, sparizioni istantanee, trasformazioni mostruose, poste di fronte a scelte elementari di giusto o ingiusto, messe alla prova da percorsi irti d’ostacoli, verso felicità prigioniere d’un assedio di draghi; e così nelle vite dei popoli, che ormai parevano fissate in un calco statico e determinato, tutto ritornava possibile».
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