L’astuzia di Callimaco e la virtù del principe secondo Machiavelli

Nel Principe (opera dedicata a Lorenzo de’Medici composta nel 1513 e pubblicata nel 1532), Niccolò Machiavelli fa una distinzione netta tra politica e etica. Afferma che governanti che agiscono sempre nel rispetto dell’etica non si sono «mai visti né conosciuti essere in vero»: sono un’idealizzazione, un’utopia. Loda inoltre coloro che «hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini; et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà». Ciò non significa che i principi non debbano essere virtuosi, ma solo Machiavelli ha un altro concetto della virtù del buon governante rispetto ai trattatisti precedenti.

Alla virtù morale sostituisce la capacità di controllo, d’iniziativa e di resistenza. Riconosce come legittima anche l’impetuosità che serve per per affrontare l’imponderabile, ovvero l’imprevisto. Al contrario degli umanisti che concepivano l’individuo come capace di controllare interamente la propria sorte, Machiavelli ritiene che «la fortuna sia arbitra di metà delle azioni nostre». Tuttavia pensa anche che il buon principe debba saperla tenere a freno, o cavalcarla, mediante il suo acume e la sua capacità d’azione. 

La Fortuna e Callimaco

È un po’ quello che fa Callimaco nella commedia teatrale La Mandragola (composta e pubblicata a Firenze nel 1518 e messa in scena per la prima volta nel 1526 a Modena). Si trova a affrontare gli imprevisti portati dalla Fortuna voluttuosa, cavalca l’onda e cerca di trarre il meglio dalla situazione esercitando l’arte dell’astuzia e dell’inganno. Callimaco però non è un principe, ma solo la sua versione più meschina e mediocre. Non opera per il bene dello Stato, ma solo per tornaconto personale e il suo agire si innesta in una trama comica di gusto decameroniano che ribalta la serietà delle opere politiche e storiche.

Tutto comincia con Callimaco che racconta al servo Siro di un imprevisto che l’ha portato a lasciare Parigi e raggiungere Firenze: «parendo alla Fortuna che io avessi troppo bel tempo, fece che capitò a Parigi un Camillo Calfucci. […] E [Camillo] nominò madonna Lucrezia, moglie di Messer Nicia Calfucci, alla quale dette tante laude e di bellezze e di costumi che fece restare stupidi qualunche di noi, e in me destò tanto desiderio di vederla che […] mi messi a venire qui [a Firenze]». La voglia effimera di contemplare e possedere un bel corpo lo distolgono dai pensieri politici che per un principe sarebbero stati prioritari. Infatti dice di aver dimenticato le «guerre o la pace in Italia». 

L’arte dell’astuzia

Nel dialogo con il sensale Ligurio, Callimaco afferma: «non sono per temere cosa alcuna ma per pigliare qualche partito bestiale, crudo, nefando». Compresa la fallacia del primo piano partorito con Ligurio, pur di strappare Lucrezia al marito, Callimaco è disposto a ricorrere alla bestia, ovvero all’impetuosità virile a cui anche il principe deve ricorrere —per motivazioni molto più importanti — quando combattere secondo le leggi non basta più. Ma Ligurio lo frena e rilancia ancora una volta la carta dell’astuzia. Dice: «raffrena cotesto impeto dell’animo. […] Io voglio che tu faccia a mio modo: e questo è che tu dica di avere studiato in medicina e che tu abbi fatto a Parigi qualche sperienzia; lui [Messer Nicia] è per crederlo facilmente». 

Allora Callimaco si fa attore: si finge medico e propone a Nicia il rimedio dell’erba mandragola per rendere Lucrezia feconda. Tuttavia questo rimedio ha una controindicazione: il primo che giacerà con lei morirà. Nicia ci crede e accetta di far entrare nel letto della moglie un qualsiasi «garzonaccio» scioperato, che dovrebbe essere destinato alla morte. Anche l’onesta Lucrezia cede, convinta dal corrotto fra’ Timoteo durante la confessione. A questo punto Callimaco può travestirsi da garzone e raggiungere il suo scopo. 

La critica sociale

L’agire di Callimaco sembra la concretizzazione del famoso detto «il fine giustifica i mezzi», frase attribuita a Machiavelli ma che egli non pronunciò né pensò mai. Questo detto proverbiale e il termine machiavellico derivano da interpretazioni troppo libere della filosofia dell’autore. Queste identificavano il fine dell’agire del sovrano con il mantenimento del suo potere, che egli doveva assicurarsi con ogni mezzo. In realtà per Machiavelli l’obiettivo primario del principe è la promozione della potenza dello stato, fine molto più nobile, per cui ogni mezzo è da considerasi lecito.

Callimaco è sì un personaggio machiavellico, ma Machiavelli lo disegna come tutt’altro che un eroe. Affidandosi a un’ironia tagliente che ha la forza di dare un doppio strato alla narrazione, fa di Callimaco uno strumento di condanna nei confronti di una società immorale. Nella realtà descritta in La Mandragola infatti vince sempre il più scaltro, i valori familiari vengono sacrificati e anche i religiosi sono soggetti a corruzione. Callimaco è quindi vincitore in una collettività perdente, impulso dialettico che dà vita all’azione eppure mai principe, ma sempre e solo anti-principe.

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