La nostra felicità non è posta nei beni che possediamo, ma in ciò che realmente siamo e in ciò che siamo capaci di donare

felicitaLe letture di queste domeniche estive sono legate da un filo rosso. Se la liturgia, Domenica scorsa, ci invitava a relazionarci con Dio, chiamandolo Padre e chiedendoGli ciò che serve veramente per la nostra vita, quest’oggi ritorna l’invito pressante a mettere Dio al centro della nostra vita. Viviamo il momento delle ferie, siamo lontani dalle tante preoccupazioni ordinarie, dagli affanni, dalla fatica; anche quest’anno, il Signore ci concede di vivere una breve parentesi di tranquillità e di spensieratezza; ricordiamoci però che senza Dio anche il momento delle ferie diventa un’illusione. Gesù, infatti, ci offre non una felicità passeggera ma inesauribile, da trovare non tra i beni della terra, ma costruendo una vita tutta in funzione di Dio e attribuendo ad ogni cosa il giusto valore; se ancora non l’abbiamo fatto, diamo un senso vero anche alla nostra esistenza, alle nostre giornate che ruotano attorno alle categorie dell’essere e dell’avere; si vive, ovvero, in base a ciò che si è ed a ciò che si ha. Ma è soprattutto all’essere che dobbiamo pensare, giacché dinanzi a Dio è solo questo aspetto che conta più di ogni altro. Sì, soffermarci di più a considerare il nostro essere. È forte la carica che viene da questo messaggio. In mezzo alle nostre logiche che prediligono il mito dell’avere, la promozione dell’essere sembra essere una nota piuttosto stonata; ma per essere testimoni autentici della fede ricevuta al Battesimo, non possiamo fare altrimenti. Quindi, illuminati dalla Parola, iniziamo da oggi a riflettere non tanto su ciò che si deve fare o “avere”, ma su quello che siamo chiamati ad essere. E a proposito, un tema molto caro ai cristiani di ogni tempo è quello della vanità delle cose. Non c’è poeta, filosofo o scrittore che su questo tema non abbia prodotto riflessioni, aforismi, aneddoti, rintracciabili pure sfogliando le pagine della Sacra Scrittura. Il testo più conosciuto è certamente quello di Qoelet, una pagina della Bibbia questa, che ripetendo quasi ossessivamente un ritornello che esorta a considerare la vanità del mondo e dell’uomo, ci provoca un senso di vuoto abissale. La vanità di Qoelet è una sensazione impalpabile, instabile, denominata in ebraico con il sostantivo “havel”. Questo termine è utilizzato per indicare la rugiada, ma soprattutto la nebbia sottile di primo mattino che sparisce con lo spuntare del sole, senza lasciare alcuna traccia; ma indica anche la scia prodotta dalla nave quando solca le acque: la schiuma bianca, infatti, sparisce velocemente, ingoiata dal pelo stesso dell’acqua. Queste tre realtà, allora, ci indicano l’assoluta inconsistenza, la brevità e l’instabilità dell’esistenza umana, ma anche la fatica dell’uomo e l’affanno, con i quali Qoelet vorrebbe realizzare i propri progetti e smorzare i dolori e le preoccupazioni che non lo fanno riposare neppure di notte. Ma la vanità del nostro Autore sacro è anche l’inconsistenza delle cose; indica pure i falsi bisogni e i molti pseudo valori sui quali oggi forse vogliamo costruire la nostra vita. Dunque, se fondiamo il nostro futuro su tali realtà effimere, resteremo soltanto delusi perché con il sopraggiungere del primo raggio di sole ogni cosa sparirebbe. Ce ne dà conferma anche il Vangelo di questa Domenica: il ricco agricoltore s’illude terribilmente perché fa della ricchezza e della prosperità le uniche coordinate della sua esistenza; non si accorge però che facendo così inganna se stesso. Infatti, è totalmente invasato dal fascino del possedere che va spedito incontro alla solitudine e alla morte. L’insegnamento che ne deriva è sorprendente: Gesù non disprezza i beni della terra ma punta il dito verso la loro assolutizzazione. Non è la ricchezza la fonte della nostra felicità, non è il profitto né il potere né i soldi che devono dettare la filosofia della nostra vita. La ricchezza assolutizzata spegne la vita dell’uomo, la priva della possibilità di costruire quei ponti verticali, che ci conducono diritti verso Dio, e quelli orizzontali che ci portano verso gli altri; solo queste due dimensioni sono in grado di dare valore e sapore all’esistenza cristiana. Gesù ci ammonisce e ci chiede di guardarci dalla cupidigia, dalla “pleonexia” che è la ricerca avida di denaro, la radice di ogni male (cf 1Tm 6,10). Gesù ci dice che solo Dio può soddisfare pienamente i nostri bisogni. E lo sappiamo, tutto ciò è assurdo per la logica del mondo, ma non per la nostra: dobbiamo puntare di più a ciò che è essenziale, solo così saremo davvero ricchi davanti a Dio, di quella sapienza del cuore che ridimensiona la logica dell’attaccamento al denaro, al successo, al potere, alla posizione, ai titoli, ai propri “orticelli”. È la ricchezza purtroppo che ci divide, per i soldi c’è gente senza scrupoli disposta a fare tutto, a calpestare perfino la sua ed altrui dignità, a vendersi ed a vendere anche gli affetti più cari. Il problema allora non sono le ricchezze o i soldi, ma forse siamo proprio noi! E finché non attueremo quella logica cristiana, secondo cui i beni materiali, pochi o molti, non sono il fine della vita ma solo un mezzo per il sostentamento nostro e degli altri, saremo sempre gli eterni infelici, soggetti al brontolio e alla frustrazione. Non dimentichiamoci che l’uomo più possiede e più vuole possedere. Ma solo Dio è la ricchezza che i ladri non possono attaccare. Quindi, la nostra felicità non è posta nei beni che possediamo, ma in ciò che realmente siamo e in ciò che siamo capaci di donare: sulla bilancia di Dio, solo l’amore donato avrà il suo peso, tutto il resto sarà solo vanità che in pochi attimi sparisce, senza lasciare alcuna traccia. Infine, impariamo questa preghiera: “Tutta la ricchezza che non rappresenta Te, o Signore, è solo miseria per me. Aiutami a possedere dinanzi a Te soltanto ciò che sarò stato in grado di donare”. Amen.
di Frà Frisina

foto:statoquotidiano.it

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