La Cucina futurista

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Se credete che l’ultimo azzardo culinario che vi ha sorpreso in rete o davanti al televisore sia la cosa più ardita mai concepita vi sbagliate perché, tra i diversi movimenti culinari che hanno attraversato il ‘900, la Cucina futurista, quanto ad astrazione, inventiva, audacia negli accostamenti batte tutti per distacco.

Concepita da uno dei personaggi più controversi del ‘900 italiano, quel Filippo Tommaso Marinetti del «zz-zang tumb tumb spiaccicato» de «Il bombardamento di Adrianopoli» e della glorificazione della guerra «sola igiene del Mondo», la Cucina futurista è stata incapace di sopravvivergli  non solo perché completamente dissonante rispetto al gusto contemporaneo e successivo, ma perché essa fu, sostanzialmente, una cucina ideologica strettamente legata al regime fascista. 

Non devono, infatti, trarre in inganno il linguaggio ora aulico ora iperbolico di Marinetti, le sue intuizioni in campo alimentare, le anticipazioni di mode estetiche che ora consideriamo all’avanguardia, perché lo scopo dichiarato di Marinetti non era incidere sul costume, ma condizionare, agendo su di un piano tanto popolare quanto apparentemente innocente come quello del cibo e dell’alimentazione, il comportamento di un popolo che egli desiderava aggressivo, maschilista, sprezzante del pericolo,  guerriero e guerrafondaio.

Indagare il contenuto della Cucina futurista, con il distacco che ci è consentito dal lungo tempo trascorso, non è solo operare un interessante excursus su quel movimento che comunque fa parte della nostra storia culinaria, ma consente  di depurare dall’ideologia le sue anticipazioni che possiamo riconoscere in una parte della gastronomia contemporanea.  

Le premesse della Cucina futurista 

La grande intuizione di Marinetti, che rubando un’espressione cara al mondo di «Guerre Stellari» si può tranquillamente definire il fondatore del lato oscuro della gastrosofia, fu di individuare nella cucina non solo una modalità di preparazione del cibo, inteso come nutrimento, ma anche un formidabile strumento di propaganda ideologica e di egemonia culturale. 

Da questa intuizione, che lo ha reso il primo intellettuale organico ad occuparsi di cucina, Marinetti  trasse la necessità non solo di elaborare una propria  gastrosofia, ma soprattutto di scagliarsi, con la violenza verbale che gli era connaturata,  contro la cultura gastronomica del suo tempo sino ad annientarla, a distruggerne il fondamento.

L’idea di mettere su carta, assieme al suo sodale Fillìa (pseudonimo di Luigi Colombo) un libro che fosse, allo stesso tempo, manifesto e ricettario della vera Cucina futurista nacque, come racconta lo stesso Marinetti nel libro omonimo che verrà pubblicato da Sonzogno nel 1932,  dopo un banchetto offerto dal ristorante Penna d’oca di Milano diretto da Mario Tapparelli e che voleva essere un elogio gastronomico del futurismo.

Il menù di quel banchetto prevedeva: oca grassa,  gelato nella Luna, lacrime del dio Gavi,

brodo di rose e sole, favorito del mediterraneo zig, zug, zag, agnelli arrosto in salsa di leone, insalatina all’alba,  sangue di bacco (Terra Ricasoli), ruotelle tempiste di carciofo,

pioggia di zuccheri filati, schiuma esilarante (Cinzano),  frutta colta nel giardino d’Eva, caffè e liquori.

Pur se apprezzate dai commensali, che annoveravano tra gli altri il Prefetto di Milano Fornaciari, Roberto Farinacci ed i futuristi Depero e Prampolini, le vivande apparvero a Marinetti  «timidamente originali e ancora legate  alla tradizione gastronomica».

Al termine del banchetto Marinetti, parlando ad una stazione radiofonica,  annunciò allora  l’imminente pubblicazione del suo manifesto gastronomico per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano che egli riteneva inadatto alle nuove necessità eroiche e dinamiche «imposte dalla razza» e si scagliò immediatamente contro la pastasciutta definita «vivanda passatista perché appesantisce, abbruttisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende  scettici, lenti, pessimisti» e affermava essere patriottico la sua sostituzione con il riso.

All’indomani, narra Marinetti nel libro col suo solito linguaggio iperbolico, «su tutti i giornali scoppiò una  polemica violentissima alla quale parteciparono  tutte le categorie sociali, dalle signore, ai cuochi,  ai letterati, agli astronomi, ai medici, agli scugnizzi, alle balie, ai soldati, ai contadini, agli scaricatori del porto. Ogni volta che in qualsiasi  ristorante, osteria o casa d’Italia veniva servita  la pastasciutta, erano intrecci immediati di interminabili discussioni».

Discussioni che ovviamente ripresero dopo la pubblicazione del  «Manifesto della Cucina futurista» perché Marinetti fu di parola e meno di un mese dopo quel banchetto, il 28 dicembre 1930, apparve  nella Gazzetta del Popolo di Torino il suo Manifesto che si sostanziava nelle seguenti parole d’ordine: l’abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana; l’abolizione del volume e del peso nel  modo di concepire e valutare il nutrimento; l’abolizione delle tradizionali miscele  per l’ esperimento di tutte le nuove miscele apparentemente assurde, secondo il consiglio di  Jarro Maincave e altri cuochi futuristi; l’abolizione del quotidianismo mediocrista nei piaceri del palato.

Il Manifesto si concludeva con un appello:  «Invitiamo la chimica al dovere di dare presto  al corpo le calorie necessarie mediante equivalenti nutritivi gratuiti di Stato, in polvere o pillole, composti albuminoidei, grassi sintetici e vitamine».

La lotta contro la pastasciutta

Che il fine di Marinetti fosse  polemico è facilmente intuibile proprio dall’iniziale e sbandierato ostracismo contro la pastasciutta, argomento che Marinetti sperava, a ragione, gli avrebbe regalato la pubblicità cui anelava.

Del resto Marinetti era noto per essere quello che, già nel 1909, nel suo discusso (e  sotto ogni aspetto inaccettabile) «Manifesto del Futurismo» aveva esaltato «il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo  di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno».

Quello della pastasciutta era chiaramente un argomento di grande presa popolare in grado di raccogliere anche adesioni da parte di quel mondo scientifico che guardava con attenzione al cibo e che sfruttò la notorietà di Marinetti per uscire dall’anonimato anche a costo di sposare acriticamente le sue posizioni estremiste.

Non sfugge, inoltre, la vena razzista e antimeridionale di Marinetti, che si apprezza anche nella perorazione del consumo del riso.

La pastasciutta, scriveva ad un certo punto Marinetti, «contrasta collo spirito vivace e coll’anima appassionata generosa intuitiva dei napoletani. Questi sono stati combattenti eroici, artisti ispirati, oratori travolgenti, avvocati arguti, agricoltori tenaci a dispetto della voluminosa pastasciutta quotidiana. Nel  mangiarla essi sviluppano il tipico scetticismo  ironico e sentimentale che tronca spesso il loro entusiasmo. Un intelligentissimo professore napoletano, il dott. Signorelli, scrive: “A differenza del pane e del riso la pastasciutta è un alimento che s’ingozza, non si mastica. Questo alimento amidaceo viene in gran parte digerito in bocca dalla  saliva e il lavoro di trasformazione è disimpegnato dal pancreas e dal fegato. Ciò porta ad un squilibrio con disturbi di questi organi. Ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo”».

Per farla breve, per Marinetti (e per il suo alter ego) i napoletani erano dei pigri nostalgici, dei sentimentali infiacchiti inclini al pessimismo, usi ad ingozzarsi e soprattutto erano neutralisti e quindi in sostanza dei pacifisti. 

Non che fosse colpa loro, era colpa della pasta, chiosava Marinetti e tutto sarebbe cambiato se l’avessero sostituita con il riso.

Marinetti, tuttavia, non poteva non sapere, proprio citando il riso, che dal punto di vista gastronomico, parallelamente alla diffusione delle coltivazioni e soprattutto alla disponibilità degli alimenti  anche da parte delle classi meno abbienti, vi è stata da sempre  un’Italia della della pasta, che si colloca tutt’ora dal Centro sino al Sud, ed un’Italia del riso che coincide con il Piemonte (ed in particolare con il vercellese), la Lombardia,  il Veneto ed il ferrarese che guarda caso erano le aree geografiche in cui era nato il fascismo.

La pastasciutta, quindi, nella visione di Marinetti, era nemica della razza italiana e non appare propriamente casuale che uno dei sostenitori delle idee marinettiane citato nel libro di Marinetti sia quel Professor Nicola Pende che sarà tra i sottoscrittori nel 1938 del «Manifesto della razza». Un esempio, quello di Pende, non isolato visto che nello stesso volume si dà ampio spazio ad una lettera aperta di adesione pubblicata sull’«Ambrosiano» dal giornalista Marco Ramperti che sarà uno dei maggiori sostenitori della politica razziale del regime fascista. 

Il contesto gastronomico in cui nacque la Cucina futurista

L’Italia nella quale nacque la Cucina futurista era già politicamente  fascista e tra i commensali di Marinetti nella cena futurista alla Penna d’oca vi era stato il cremonese  Roberto Farinacci già cofondatore dei Fasci di Combattimento. Un personaggio di spicco del regime, un Ras capace di mettersi anche apertamente contro Mussolini che, tuttavia, lo teneva in grande considerazione: scriverà infatti Piero Gobetti: «Mussolini deve la propria forza proprio a Farinacci».

Di una vera e propria «cucina fascista», tuttavia, non era possibile parlare, e non lo sarà almeno sino a quando, con le sanzioni decise dalla Società delle Nazioni a seguito della guerra d’Etiopia del 1935 ed il blocco delle importazioni di alcuni generi di prima necessità, non vi sarà la fioritura di tutta un’editoria culinaria femminile che mirava ad istruire le massaie sulla preparazione dei pasti in chiave autarchica a sostegno del regime.

Certamente la Cucina futurista ambiva a diventare la cucina del regime, ma si limitò, anche perché il regime non poteva permettersi di condividere le sue scelte estremiste che lo avrebbero reso inviso ai ceti popolari da cui traeva gran parte del suo consenso, ad essere una cucina elitaria e d’avanguardia.

L’Italia gastronomica a cui si rivolgeva Marinetti, quindi, era sostanzialmente divisa tra le tradizioni delle classi popolari (a cui si dirigeva l’attacco alla pastasciutta) e la cucina borghese di stampo artusiano che, a ben vedere, fu il vero obiettivo di Marinetti che voleva sedurre la gioventù ribelle e facoltosa e metterla contro la propria classe sociale.

Astrattismo della Cucina futurista

Dal punto di vista strettamente gastronomico la Cucina futurista si presentava dichiaratamente astratta e comunque più attenta alla forma che alla sostanza.

Alcune preparazioni appaiono stravaganti solo nel nome e nella forma, come  il  più celebre piatto futurista, il «Carneplastico» che a ben vedere si riduce ad un polpettone di vitella con verdure posizionato verticalmente ed avente in cima uno spessore di miele ed alla base un anello di salsiccia e tre polpette di pollo, i «Datteri al chiaro di luna» (semplici datteri zuccherini farciti di ricotta romana) e le «Mammelle italiane al sole» (che paiono una variante delle cassatelle di Sant’Agata).

Altre preparazioni cedono alla tradizione come le «Arancine di riso» (che non si distaccano molto dai supplì) mentre alcune ricette sono completamente estranee al gusto corrente e, sinceramente, al buongusto.

Il «Porcoeccitato», ad esempio, è un salame crudo servito in un piatto contenente caffè espresso mescolato con molta acqua di Colonia, mentre «Avanvera» accosta mandorle tostate, fette di banana, acciughe, caffè, pomodoro e parmigiano ad un intruglio di vermouth, liquore Strega e Cognac con immerse altre fette di banana.

Che dire poi del  «Pollo d’acciaio»: un pollo svuotato e, una volta arrostito, farcito con  zabaione e confetti e servito con creste di pollo?

Più che per il contenuto, peraltro coerente con la dichiarata adozione di  «miscele apparentemente assurde», le ricette colpiscono per le fantasiose denominazioni e soprattutto per la cura maniacale per la presentazione dei piatti come vere e proprie opere d’arte futurista che si contrappone alla totale assenza di dosi, anch’essa perorata nel Manifesto della Cucina futurista.  Scriveva a questo proposito Marinetti: «la dosatura sommaria di molte di queste formule non deve preoccupare ma  bensì eccitare la fantasia inventiva dei cuochi futuristi i cui eventuali errori potranno spesso suggerire nuove vivande».

Accanto alle ricette il libro riporta, scimmiottando i menù borghesi dell’epoca, tutta una serie di «Pranzi determinanti» che si risolvono in vere e proprie esperienze sensoriali, talvolta davvero estreme come nel caso del «Pranzo musicale autunnale» in cui, scrive Marinetti: «In una capanna da cacciatori seminascosta in un bosco verdeazzurrodorato, due coppie si siedono ad una tavola rozza formata di tronchi quercia. Il rapido crepuscolo sanguigno agonizza sotto le enormi pancie delle tenebre come sotto piovosi e quasi liquidi cetacei. Aspettando la contadina-cuoca, sulla tavola ancora vuota passerà, unico alimento, il fischio  che il vento infila nella serratura della porta alla sinistra dei mangiatori. Duellerà con quel fischio il gemito lungo pure affilato di un suono di violino, stiracchiato nella camera di destra dal figlio convalescente della contadina. Poi, silenzio di un minuto. Poi, due minuti di ceci nell’olio e aceto. Poi, sette capperi. Poi venticinque ciliege allo spirito. Poi, dodici patatine fritte. Poi, un silenzio di un quarto d’ora durante il quale le bocche continuino a masticare il vuoto. Poi, un sorso di vino Barolo tenuto bocca un minuto. Poi, una quaglia arrostita per ciascuno dei convitati da guardarsi e annusare intensamente senza mangiare. Poi, quattro lunghe strette di mano alla contadina-cuoca e via tutti nel buio vento pioggia del bosco».

Gli influssi della Cucina futurista sulla gastronomia contemporanea

La Cucina futurista, così intimamente ed ideologicamente legata ad uno dei periodi più drammatici della nostra storia nazionale, è stata oggetto di una vera e propria rimozione anche da parte di coloro che, alla sua epoca, ne furono sedotti e solo oggi, timidamente, se ne sta sperimentando il recupero in chiave esclusivamente gastronomica e filologica.

Il suo tempio dell’epoca fu la Taverna del Santopalato di Torino, di proprietà del futurista Angelo Giachino, decorata dall’architetto bulgaro Nicolaj Diulgheroff ed inaugurata da una cena futurista dell’8 marzo 1931.

Alcune intuizioni di Marinetti, tuttavia, sono facilmente riconoscibili nella cucina contemporanea, soprattutto in quella che aspira a trasformare un semplice pasto in un’esperienza sensoriale pur senza arrivare alle estremizzazioni dei «Pranzi determinanti».

Un’esperienza sensoriale che secondo Marinetti ed i suoi sodali non doveva  però limitarsi  al gusto, all’olfatto e alla vista, ma doveva coinvolgere anche il tatto (non solo come sensazione tattile della degustazione) e l’udito.

Per gustare adeguatamente l’«Aerovivanda» di Fillìa, ad esempio, si doveva porre alla sinistra del commensale un rettangolo formato a sua volta da rettangoli posti in senso discendente di carta vetrata, seta rossa e velluto nero. All’atto della degustazione, il commensale doveva portare alla bocca il contenuto del piatto direttamente con la mano destra, mentre con la sinistra doveva sfiorare leggermente e ripetutamente i rettangoli alla sua sinistra. Nel frattempo i camerieri avrebbero spruzzato sulle nuche dei commensali un «conprofumo» di garofano mentre dalla cucina proveniva un violento «conrumore» di motore di aeroplano contemporaneamente ad una «dismusica» di Bach.

I termini «conprofumo», «conrumore» e «dismusica» ed i corrispondenti «disprofumo», «disrumore» e «conmusica» indicavano il tipo di abbinamento voluto  di profumi, rumori e musica per concordanza o per contrapposizione con i sapori delle vivande.

Nel libro,  ricco di indicazioni e di illustrazioni sulla presentazione delle diverse pietanze, si possono individuare le radici del moderno impiattamento che ha sostituito il servizio di sala tradizionale.

Queste, ad esempio, le istruzioni, accompagnate nel libro da un disegno, per impiattare «Percazzottare» del pittore e critico d’arte futurista Paolo Alcide Paladin: «Si copre il fondo di un piatto rotondo di fonduta leggermente profumata alla grappa. Su un raggio del piatto si dispongono equidistanti tra loro ed a mo’ di cono 3 mezzi peperoni rossi cotti forno e ripieni di una pasta di verdura composta di punte di asparagi, cuori di sedani e di ficchi, cipolline, capperi, carciofini, olive. Dal lato opposto si dispongono 3 gambi di porri le lessati. Un arabesco di tartufo grattugiato che parte  dal 2° peperone e finisce a quello verso la parte  esterna, completa il piatto».

Secondo Marinetti  il pranzo perfetto esigeva un’armonia originale della tavola (cristalleria, vasellame, addobbo) coi sapori e colori delle vivande e la disposizione dei cibi nei piatti rispondeva ad una precisa esigenza estetica. 

A Marinetti, che si muoveva in un contesto gastronomico sostanzialmente figlio dell’800, va inoltre riconosciuta l’invenzione dell’astrazione della denominazione dei piatti che veniva completamente svincolata dal territorio, dagli ingredienti, dalla tradizione e persino dall’autore della ricetta a favore di nomi di fantasia di taglio poetico  ed evocativo che avevano lo scopo di solleticare la curiosità, i sensi e la fantasia dei commensali sin dalla lettura del menù che non era tale, ma definito, in coerenza con quella sostituzione dei nomi stranieri con denominazioni italiane voluta dal regime, «listavivande» così come i cocktail venivano chiamati polibibite.

Di straordinaria modernità per la sua epoca, inoltre, e anticipatrice della cottura a bassa temperatura che ora va molto di moda, l’affermazione secondo cui non bisognava commettere l’errore: «di far cuocere le vivande in pentole a pressione di vapore, il che provoca la distruzione di sostanze attive (vitamine, ecc.) causa delle alte temperature»

Egualmente accolto in epoca contemporanea, ma dalla cucina industrializzata  ed a fini prettamente commerciali, risulta infine l’appello di Marinetti alla chimica affinché inventasse alimenti «in polvere o pillole, composti albuminoidei, grassi sintetici e vitamine».

La bistecca sintetica di cui oggi si fa un gran parlare sarebbe stata la sua figlia prediletta.

Foto di Brent Connelly da Pixabay 

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