Il dono di Reyhaneh

ReyhanehChissà quante volte ancora ci capita leggendo un quotidiano, ascoltando un notiziario radiofonico o televisivo che sia, o le news on-line su qualche sito di informazione, di stupirci.

Può sembrare un’assurdità questa domanda, eppure non lo è.

Ormai gli organi di informazione (non per causa loro, è evidente), ci hanno abituati ogni giorno, ad ogni ora, ad un vero e proprio elenco degli orrori. Guerre, carestie, epidemie mortali, persone che si fanno saltare in aria per abbattere con il loro sacrificio migliaia di altre vite. E ancora; prelati pedofili, maestre che picchiano bambini, decapitazioni in nome di un <<credo>>, annegamenti di uomini, donne e bambini che scappano via mare su <<zattere>> di fortuna, alla ricerca di una vita migliore.

Eppure, l’orrore più grande, non è tra quanto fin qui letto. Trovo infatti che l’orrore più grande sia dovuto dal fatto che non ci si scandalizzi più. Siamo come abituati, assuefatti, da quanto il mondo ogni giorno ci riserva e ci propone. Sono convinto che chiunque mi stia leggendo si ritroverà in questa mia analisi e la cosa fa davvero rabbrividire.

Nonostante ciò, una notizia purtroppo nell’aria da giorni, ha sconvolto in maniera importante durante questo fine settimana, la mia coscienza. Si tratta della storia di Reyhaneh Jabbari, la 26enne Iraniana condannata a morte e giustiziata per mezzo di impiccagione alla mezzanotte dello scorso venerdì, poiché rea di aver assassinato un uomo, 7 anni fa, quando poco più che 19enne.

Ricostruendo la storia, scopriamo che Reyhaneh, all’età di 19 anni, lavora come decoratrice d’interni per pagarsi gli studi universitari. Ed è proprio con questo fine che un uomo le chiede un appuntamento. Reyhaneh dirà che quell’appartamento in cui si ritroverà sarà soltanto uno studio medico completamente vuoto, dove l’uomo tenterà di violentarla. Non ero lì e non posso sapere come sono andati i fatti. Così come non so perché lei avesse un coltello che usò nel tentativo di difendersi fino ad uccidere il suo attentatore.

Quindi non è in questa sede che voglio ricercare colpevoli ed innocenti. Più che sulla causa, la mia attenzione si focalizza pertanto sugli effetti. La vittima era persona che godeva di alta considerazione: un medico con un passato speso all’interno dei servizi segreti. Un nome da difendere, quindi, anche all’interno della sentenza stessa.

Mettiamoci poi, che il tutto accade in un paese dove, all’alba del 2015, le donne godono di considerazione ed importanza sociale prossima allo zero ed il risultato è pressoché scritto. Reyhaneh viene accusata di omicidio volontario. Al processo emerge che la 19enne avrebbe acquistato il coltello un paio di giorni prima, quasi per motivare una sorta di premeditazione. Sta di fatto che la storia di questa giovane cambia drasticamente. Finisce lì.

“Quel giorno sarei dovuta morire io” diceva Reyhaneh continuamente. Asseriva che il suo corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo di strada e che nessuno ci avrebbe fato caso. Invece il suo corpo è stato gettato “nella tomba di una prigione” dove la violenza psicologica a cui la sua anima è stata obbligata, l’ha accompagnata fino all’ultimo istante di vita.

Reyhaneh, qualche mese prima della sua esecuzione, ha lasciato una lettera destinata alla madre nella quale alcuni passaggi fanno davvero riflettere:

“Oggi ho imparato che è arrivato il mio turno di affrontare la Qesas (legge del taglione – n.d.r.). Ho raggiunto l’ultima pagina del libro della mia vita…

Se fossi stata io a morire, l’assassino non sarebbe mai stato identificato. Noi non abbiamo il suo denaro, né il suo potere…

Mamma, mi hai insegnato che si deve difendere un valore anche se si muore per questo…

Non uccido neanche gli scarafaggi, li allontano prendendoli per le antenne. Ora, invece, sono diventata un’assassina con premeditazione…

Madre io non voglio andare a marcire sotto terra. Fai in modo che venga disposto, che non appena impiccata il mio cuore, reni, occhi e tutto ciò possa essere trapiantato, venga tolto dal mio corpo e dato a qualcuno che ne ha bisogno, come dono. E non voglio che chi riceverà questo, sappia il mio dono…”

Reyhaneh, come se non bastasse, prega la mamma ed i suoi parenti, di non piangerla, di non indossare abiti neri, ma di ricordarla cercando di fare qualsiasi cosa per dimenticare i suoi giorni difficili. E di farlo sorridendo. La storia di questa donna commuove e ancor di più stupisce. Non è un racconto proveniente da un mondo lontano che i nonni raccontano ai nipotini (ricordo mio nonno che mi raccontava la guerra…).

E’ una storia di oggi, che si aggiunge alle tante, troppe taciute o appena raccontate e che, purtroppo, non termineranno qui.

Reyhaneh scuote le coscienze popolari: un gran dono per tutti noi.

di Riccardo Fiori

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