Gli epitaffi di Spoon River: leggere la vita attraverso la morte

spoon river

«Qui giaccio accanto alla tomba/del Vecchio Bill Piersol,/che s’arricchì commerciando con gli Indiani, e che/più tardi profittò della legge sulla bancarotta/e ne riemerse più ricco che mai.» Inizia così il primo dei 244 epitaffi che compongono l’Antologia di Spoon River, scritta dall’autore americano Edgar Lee Masters e pubblicata in versione definitiva nel 1916. In Italia l’opera compare solo nel 1943, per merito di Cesare Pavese che con uno stratagemma riesce a farla pubblicare nonostante la censura fascista. 

A proposito di Masters, Pavese afferma: «Come non riconoscere il lui la stirpe degli Howthorne e Melville, infaticati e misantropici scrutatori del cuore e dei dilemmi della vita morale». Già, perché nonostante l’Antologia di Spoon River sia una raccolta di poesie immaginate come scolpite sulle lapidi di un cimitero sulla riva del fiume Spoon, essa ha come oggetto principale la tragedia della vita indagata dal punto di vista di tutte le categorie umane. 

La corrente del fiume e le controcorrenti della vita

Il fiume rappresenta la scrittura e il viaggio di chi legge uno dopo l’altro gli epitaffi. Ma soprattutto è metafora del tempo lineare che anche se si porta via i giorni continua a riproporre le stesse dinamiche e negli stessi modelli di comportamento. Si tratta di un’ «immota restaurazione», come dice Walter Mauro nell’introduzione all’edizione Newton Compton. Ma anche un insieme di controcorrenti che sfugge allo sguardo limitato dei vivi. Recita l’epitaffio di Serepta Mason: «Voi che vivete, siete davvero degli sciocchi,/voi che non conoscete le vie del vento/e le forze invisibili/che governano il processo della vita». 

Serepta conosce queste vie perché è morta. Solo alla luce della fine riesce a rileggere tutta la sua esistenza e a riassumerne l’essenza in poche righe: «La corolla della mia vita avrebbe potuto sbocciare da ogni lato/se un vento crudele non avesse tarpato i miei petali…». La stessa consapevolezza emerge nell’epitaffio di George Gray, che si compiange per aver vissuto senza vivere davvero perché frenato dalla paura («Molte volte ho studiato/il marmo che mi hanno scolpito —/una nave con la vela piegata in riposo nel porto./In verità non ritrae la mia destinazione/ma la mia vita»).

La mente e l’anima

Altrettanto significativo è l’epitaffio di Ernest Hyde, in cui Masters descrive la differenza che c’è tra mente e anima usando la metafora dello specchio. «La mia mente era uno specchio:/vedeva ciò che vedeva, sapeva ciò che sapeva./ In gioventù la mia mente era solo uno specchio/in un vagone che correva veloce,/afferrando e perdendo frammenti di paesaggio./Poi con il tempo/grandi graffi solcarono lo specchio/lasciando che il mondo esterno penetrasse,/e il mio io più segreto vi affiorasse./Poiché questa è la nascita dell’anima nel dolore,/una nascita con vincite e perdite./La mente vede il mondo come cosa a sé,/e l’anima unisce il mondo al proprio io./Uno specchio graffiato non riflette immagine -/e questo è il silenzio della saggezza».

La presa di coscienza della compenetrazione disarmonica tra l’io e il mondo segna il passaggio tra il ritmo veloce dell’ignara giovinezza e quello lento della maturità logorata. Non c’è saggezza senza i graffi dell’esperienza. E l’habitat della saggezza è il silenzio, il silenzio della contemplazione e dei cimiteri, dove giace l’esperienza grande e muta di chi ha vissuto la propria vita per intero.

Foto di Jörg Vieli da Pixabay

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