Dietro la maschera

«E sarebbe il Carnevale più divertente veder la faccia vera di tanta gente» diceva Gianni Rodari. Una frase particolarmente azzeccata a dieci giorni dal Martedì grasso. Le piazze sono disseminate di coriandoli, i forni pieni di frittelle, carri colorati sfilano a Venezia, le stelle filanti vorticano per aria mentre i bambini le guardano con il naso all’insù… E poi ci sono loro, le maschere variopinte che nella loro festosità nascondono i volti di tutti i giorni. 

L’Io attore

Travestirci è un modo per uscire da noi stessi, metterci dei bei costumi ingombranti e immaginare di essere qualcun altro. D’altronde il gioco dei ruoli è il nostro forte, dato che in quanto esseri umani siamo attori per natura. Muovendoci nel mondo cambiamo ruolo continuamente e non ce ne accorgiamo perché la nostra personalità è come una reazione chimica: il risultato dipende da quali elementi vengono combinati con la nostra anima istrionica.

Il giudice severo, il figlio ribelle e il padre amorevole possono essere la solita persona, facce dello stesso dado che riflettono una luce diversa a seconda del palcoscenico calpestato. Ricondurre tutto a una questione di ipocrisia sarebbe estremamente riduttivo. Quella di indossare maschere è una necessità insita nell’uomo, che è socievole e ha bisogno di adattarsi alle situazioni che vive anche a costo di appiattire la poliedricità del suo essere. Ma una domanda resta in sospeso: se tutte le maschere cadessero cosa resterebbe?

Maschere come voci discordanti

Cosa c’è dietro le maschere ce lo spiega bene Luigi Pirandello, che sul tema dell’identità ha costruito capolavori straordinari. Per lui le maschere sono voci dello stesso Io. Tonalità diverse che si intrecciano in una stonata polifonia e danno vita all’Arte, disorganica e assurda proprio perché frutto della contraddizione umana. L’autore ne parla nel saggio Arte e coscienza di oggi, dove riprende una bella definizione del poeta Eugenio Montale: «Il mondo è un ossimoro permanente e lo scrittore non può che dare voce a questo coro di voci discordanti». 

La disorganicità interiore è condizione umana da sempre, ma dopo l’Unità si acuisce perché sono diminuiti i valori condivisi che guidano le coscienze in un’unica direzione. Pirandello concorda con i Veristi e gli Scapigliati quando guarda con sfiducia all’Italia nuova. Il tradimento dei valori risorgimentali ha portato al tramonto di un sistema di simboli e miti costitutivo di una coscienza collettiva. Così l’uomo moderno è approdato a un isolamento che è sia storico che ontologico. Una solitudine esistenziale che si traduce in incomunicabilità, e che a sua volta sfocia in una crisi d’identità. E se in Il fu Mattia Pascal questa crisi si concretizza in un fallimentare tentativo di diventare qualcun altro, in Uno, nessuno, centomila irrompe sulla scena come uno specchio in mille pezzi che riflette le infinite angolature di un Io altrettanto disintegrato. 

Uno, nessuno, centomila

Il protagonista dell’ultimo romanzo pirandelliano è Vitangelo Moscarda detto Gengé, un uomo di ventotto anni che abita in un piccolo paese di provincia. La sua storia comincia una mattina, quando inaspettatamente la moglie fa un’osservazione sul suo naso. Pende verso destra, non se n’era mai accorto. Da questo momento l’immagine che Vitangelo ha di sé comincia a sgretolarsi. Scopre di avere altre anomalie fisiche, comincia a non riconoscere più il suo corpo e finisce per perdersi negli innumerevoli riflessi di sé che si trovano negli occhi degli altri. Per tutta la vita ha pensato di essere uno e invece scopre di avere centomila estranei che vivono dentro di lui.

Ogni estraneo è un ruolo che gli viene imposto, discordante con il profilo che aveva sempre attribuito a se stesso. Questa identità plurima lo sconvolge, gli risulta inaccettabile. Nel tentativo disperato di liberarsi di ogni maschera Moscarda compie gesti folli, perde gli affetti e finisce per rinunciare a ogni forma. Si identifica con il Tutto e si disperde nell’infinito mare dell’essere, scoprendosi nessuno: «muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori»

Nessuno è Tutto

Il Vitangelo-nessuno non è un’entità negata, ma una forza immensa che non può essere contenuta in una sola identità perché le contiene tutte. È l’Essere con la “E” maiuscola, la vitalità fluida che attraversa le forme in cui cerchiamo di imprigionarla. In una ribellione improvvisa questa vitalità potrebbe distruggere ogni gabbia, come succede nel caso di Moscarda. Ma di solito scorre placida, ci lascia nell’illusione di corrispondere alle pallide maschere che ci creiamo, ci guarda cambiare continuamente faccia senza cambiare viso.

E allora ecco la risposta alla domanda che abbiamo lasciato in sospeso. Se tutte le maschere cadessero cosa resterebbe? Rimarrebbe solo Lei, la Vita, che come afferma Pirandello nel suo saggio sull’Umorismo: «è un flusso continuo che noi cerchiamo di arrestare […] Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che noi abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena straripa e sconvolge tutto»

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