Darwin e il darwinismo sociale: l’evoluzionismo, il progresso, la sopravvivenza

Darwin

In L’origine delle specie (1859) Charles Darwin afferma che: «In certe condizioni gli individui, anche semplicemente durante la loro vita, cambiano leggermente nella forma usuale o nelle dimensioni e in altri caratteri, molti dei quali, una volta acquisiti in tal modo, vengono trasmessi alla prole». Capita che gli animali, per esempio, durante la loro vita diventino più o meno grandi o più o meno inclini a determinati comportamenti. Queste modifiche diventano poi ereditarie.

Tuttavia l’evoluzione delle specie è un processo lunghissimo e complesso. Perché si realizzi non basta il manifestarsi negli individui di nuove caratteristiche. «Per far sì che una razza o un ceppo diventino ereditabili è necessario generalmente […] il principio della selezione» secondo cui ci sono unioni e incroci più felici di altri. Questo perché «quando le condizioni esterne tendono a fornire qualche carattere, una razza che lo possiede si formerà con facilità molto maggiore se verranno scelti e incrociati tra loro gli individui che lo presentano in misura più evidente». Per Darwin gli esseri viventi che risulteranno da queste unioni saranno i più “forti”, ovvero i più adatti alla sopravvivenza. Gli altri saranno i “deboli” destinati all’estinzione. 

La lotta per la sopravvivenza

 Il concetto darwiniano di “selezione naturale” connesso a quello di “eredità” ha un impatto fortissimo sul panorama scientifico, filosofico e letterario del secondo Ottocento. Si pensi a quel filone del pensiero sociologico noto come “darwinismo sociale”. Secondo gli esponenti di questa dottrina le leggi del mondo animale e vegetale trovano applicazione anche nella società umana. Questo perché anch’essa è regolata dalla “lotta per la sopravvivenza” in cui a uscire vincitore è sempre il più forte. Ciò non vale soltanto per una società in particolare, ma per ogni società possibile. 

Emblematico dell’eterogeneità di casi umani in cui si può osservare il meccanismo della lotta per la sopravvivenza è ciò che scrive Giovanni Verga nella Prefazione ai Malavoglia: «Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all’artista, e assume tutte le forme, dalla ambizione all’avidità di guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del grottesco umano; lotta provvidenziale che guida l’umanità, per mezzo e attraverso tutti gli appetiti alti e bassi, alla conquista della verità». Verga intende mettere in scena una lotta che si combatte a ogni livello, con mezzi diversi e con diversi gradi di consapevolezza. Una lotta che resta comunque una rincorsa all’inseguimento del progresso che sul campo lascia sempre dei vinti.

Evoluzione e progresso

Il connubio evoluzione-progresso viene più volte strumentalizzato sia a livello politico che culturale. Nel contesto del Positivismo la teoria evoluzionistica di Darwin viene presa come la conferma sul piano scientifico dell’inevitabilità del progresso. Nonostante mieta vittime numerose, i positivisti vedono il progresso come una scala ascendente da percorrere con ottimismo verso il futuro. Non è strano quindi che il naturalista Emile Zola a un certo punto si sia chiesto: «Darwin aveva dunque ragione? […] il mondo non sarebbe che una lotta, dove i forti divorano i deboli per la continuità e il miglioramento della specie?». 

Meno ottimisti sono i veristi, i quali condividono l’idea che il progresso sia inarrestabile ma non ritengono che esso porti necessariamente al miglioramento. Il tramonto dei valori dei Malavoglia Verghiani ne è una dimostrazione. Un’altra ce la dà Federico De Roberto in I viceré. Qui troviamo gli Uzeda di Francalanza, aristocratici che sono troppo deboli e ottusi per adattarsi all’Italia che cambia. Per questo la loro stirpe va incontro a una degenerazione biologica oltre che spirituale. Ma non migliore di loro è chi riesce a accreditarsi come vincitore nella lotta per la vita. Si tratta del duca d’Oragua, abbastanza cinico e opportunista da accettare le regole del nuovo stato liberale, riuscendo così a dominare la nuova realtà e a manipolarla. Sarà lui che, ribaltando una frase attribuita a Massimo D’Azeglio dirà: «Ora che abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo fare gli affari nostri».

Foto di Joe da Pixabay

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