Il culto dei morti riguardava in modo particolare i faraoni. Per permetterne la vita anche dopo la morte i corpi dei faraoni venivano mummificati. Insieme alla mummia nella tomba venivano messi svariati oggetti appartenuti al defunto e con essi il libro del morto. Tutto ciò avvenne per circa due millenni e fino a poco più di duemila anni fa. Persiani, greci, romani, bizantini, arabi e turchi modificarono poi costumi e credenze. Oggi i faraoni non ci sono più e nonostante l’Egitto da svariati decenni abbia un parlamento, la democrazia è ancora ben lungi dall’affermarsi. Nel luglio 2013 un colpo di stato ha portato alla guida del paese il generale Abd al-Fattah al-Sisi.
Il 3 febbraio 2016 il corpo martoriato di Giulio Regeni è stato trovato sul ciglio della strada Cairo – Alessandria. Regeni era un ricercatore italiano dell’università di Cambridge ed era in Egitto per effettuare studi sui sindacati egiziani. La drammatica vicenda del ricercatore italiano è diventata un caso politico-diplomatico tra Italia ed Egitto. Da chi e perché Regeni è stato ucciso? La famiglia di Giulio vuole la verità. L’Italia intera vuole la verità. E anche gli egiziani vogliono la verità, almeno quelli contrari al regime. Ma la verità è resa difficile dal muro di gomma delle manipolazioni delle prove e dei depistaggi effettuati dalle autorità egiziane.
Il sospetto è che dietro manipolazioni e depistaggi ci siano i servizi segreti.
Nel mese di aprile 2016 il generale al Sisi è intervenuto pubblicamente negando che i servizi segreti abbiano responsabilità nell’uccisione di Regeni e sostenendo che dietro l’omicidio c’è “gente malvagia”. Ma non ha aggiunto nulla che potesse chiarire chi sarebbero i malvagi. Ha però invitato la stampa a “non dipendere dai social network per scrivere i loro articoli sull’Egitto: il rischio è di innescare un vortice senza fine di voci e accuse infondate”.
Dunque, secondo al Sisi, esiste la malvagità a questo mondo. Non che non ce ne fossimo accorti. Che la malvagità esistesse lo sapevano i suoi stessi avi. Pronunciate dal capo di uno stato che ambisce al rispetto della comunità internazionale e forse anche del suo popolo, le parole del generale al Sisi appaiano insufficienti e offensive delle altrui intelligenza e dignità. Esse rappresentano un goffo tentativo di giustificare la mancanza del rigore e dell’impegno che avrebbero dovuto portare all’accertamento della verità e banalizzano l’intera vicenda persino sul piano morale. Con le sue parole il generale ha preso a schiaffi due millenni di storia del suo stesso paese dimenticando la grandezza della civiltà che in esso vi visse.
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