Dopo aver attentato all’Airbus A321 della compagnia russa Metrojet, causando 224 morti e la strage di tre giorni fa nel quartiere sciita di Beirut (43 morti e 239 feriti), lo Stato islamico dell’ISIS ha effettuato il suo attacco terroristico in grande stile sul suolo europeo, causando, a Parigi, con sette azioni coordinate, altri 129 morti e 352 feriti, nonostante che, proprio il giorno prima, le polizie europee avessero trionfalmente annunciato di aver sventato un altro probabile attacco, arrestando complessivamente, 17 presunti terroristi, in Italia, in Norvegia, in Finlandia e nel Regno Unito. Complessivamente, nell’arco di 8 giorni, l’ISIS ha causato, con soli tre attacchi, 396 morti e 591 feriti.
Il bilancio è talmente alto che non lascia più alcun dubbio sullo stato di guerra attualmente esistente, oltre che nell’intero Medio-Oriente, anche sul continente europeo. Mettiamo, peraltro, da parte, le suggestive interpretazioni che si tratti o meno di guerra santa o di religione sferrata dal mondo islamico verso il mondo cristiano o capitalista che dir si voglia. D’altronde, due degli attentati degli ultimi giorni, su tre, sono stati effettuati in aree o in territori abitati da musulmani. Il confine ideologico, semmai, può essere tracciato tra chi vuole imporre l’applicazione della Shariah islamica, secondo l’interpretazione integralista, e chi, invece, adotta diversi ordinamenti giuridici. Ma è ora che lo stato islamico sia considerato un’entità a tutti gli effetti, che ha dichiarato e portato la guerra sul suolo europeo e medio-orientale e, come tale, va combattuto.
Il Presidente francese François Hollande ha dichiarato che l’attacco terroristico di sabato sera a Parigi è stato un atto di guerra verso la Francia. La stessa dichiarazione fornita da George W. Bush, dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 e che ha avuto, come conseguenza, la guerra in Afghanistan. Contrariamente a quanto successo quattordici anni fa, gli organismi internazionali hanno dato segni quasi d’indifferenza alla cosa. Assolutamente immobile l’ONU, la cui missione statutaria di provvedere al raffreddamento dei conflitti, d’altronde, è stata da tempo dimenticata e, di fatto, cancellata con il secondo intervento militare in Iraq del 2003 (coalizione multinazionale guidata dagli Stati Uniti), effettuato al di fuori dell’organizzazione e, a rigore, anche contro di essa.
Stavolta, tuttavia, non ci sono state nemmeno reazioni sensibili da parte della NATO, nonostante l’articolo 5 del suo trattato istitutivo, che prevede che un attacco a uno solo dei suoi stati membri (nel caso di specie, la Francia) debba essere considerato un attacco a tutta l’alleanza militare (Europa Occidentale e Nord America) che, come tale, deve considerarsi automaticamente in guerra a fianco dello Stato aggredito. Lo stesso articolo la cui applicazione fu invocata da parte degli USA ed accettata dall’alleanza atlantica, in occasione dell’attacco alle due torri. Perché Hollande, a tutt’ora, non si è comportato analogamente e ha proceduto in autonomia a bombardare Raqqa, la città siriana considerata il quartier generale dell’ISIS?
Semplicemente perché alla Francia, di impegnarsi in Siria o in Iraq, nell’ambito di una coalizione necessariamente guidata dagli Stati Uniti e in posizione paritaria con gli altri alleati, non ha nessun interesse. L’occasione per tornare influente in Siria e in Libano, dove ha esercitato un mandato internazionale dal 1920 al 1946 e ha sempre avuto interessi economici, è troppo ghiotta. Analogamente, agli USA di Obama, di impegnarsi in prima persona in una nuova grande operazione bellica (dopo l’Afghanistan e le due guerre in Iraq) non passa nemmeno per l’anticamera del cervello. Inoltre, in Siria agiscono già – in differenti posizioni – due forze militari con le quali bisogna fare i conti: la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan, due personaggi sulla cui affidabilità c’è poco da giurarci sopra. Per la NATO, infatti, combattere a fianco dell’erede dell’impero sovietico, interessato soltanto al mantenimento dell’unica sua base militare nel Mediterraneo, sarebbe troppo. Così come richiamare la Turchia al rispetto dei suoi impegni di Stato membro della Nato, in una guerra a fianco dei suoi mortali avversari Curdi (che, tra parentesi, sono quelli che, attualmente combattono l’ISIS per conto degli Stati Uniti), sarebbe più dispendioso che rinunciare a priori al suo apporto. Per puro dovere di cronaca, aggiungiamo che alcuni degli Stati membri più influenti della NATO, come l’Italia o la Germania, non hanno alcuna intenzione di intervenire, perché ritengono – a quale titolo? – di rimanere così immuni a futuri attentati terroristici.
Nel frattempo i cosiddetti G20, un organismo non formalmente costituito, ma formato dai capi di Stato e di governo delle 20 principali economie mondiali, si sono riuniti in Turchia ad Antalya. Si può star certi che non si andrà oltre le dichiarazioni formali di condanna dell’accaduto. Lo scenario che si profila, pertanto, è quello dell’escalation della guerra allo Stato islamico, ma effettuato in base ad interventi autonomi e non coordinati tra loro (più scenografico, quello francese; sostanzialmente inesistente quello turco; consistente in incremento di forniture militari ai Curdi, quello americano; mirante alla difesa di quanto rimane della Siria di Assad, quello russo).
L’unica negoziazione diplomatica tra le parti in guerra contro l’ISIS può essere effettuata dagli Stati Uniti – e Obama sta già provvedendo in tal senso – ma solo nei confronti di Putin. E, anche in tal caso, l’argomento principale di discussione non sarà la guerra allo Stato islamico ma il futuro del siriano Assad, che Mosca condizionerà sicuramente, al mantenimento dello status quo in Crimea e nell’Ucraina orientale. Come disse il maresciallo Badoglio, il 25 luglio 1943: “La guerra continua”; speriamo che non arrivi anche un altro 8 settembre.
di Federico Bardanzellu
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