Brodi, minestre e zuppe: il cibo ancestrale

cibo ancestrale

Il cibo ancestrale

È stato il primo cibo che abbiamo mangiato dopo il latte materno e probabilmente sarà anche l’ultimo che consumeremo.

Se coloro che comporranno le nostre spoglie saranno ligi alla tradizione accompagnerà anche la nostra veglia funebre: «consolo», infatti, ancora soprattutto nel sud dell’Italia, è quel cibo che si serve ai parenti ed a coloro che vengono a rendere omaggio al defunto e che è composto essenzialmente da brodi, minestre e zuppe, a seconda degli usi e delle stagioni.

Dal brodo natalizio, arricchito dai tortellini della tradizione emiliana o dalle diverse paste all’uovo reginali come i quadrucci e la pasta grattata, al brodetto pasquale, migrato dalla cucina ebraica quella romanesca e delle altre Regioni, in cui invece protagoniste sono le uova: nell’opulenza dei piatti festivi si trova sempre un posticino per una minestra, una zuppa o un brodo.

Ancora agli inizi del 1900 la pasta, che da lì a pochi anni diventerà l’alimento nazionale italiano, era solo la versione asciutta di una delle tante minestre.

Ora è praticamente scomparso dalla tavola quotidiana vittima della lunghezza delle sue preparazioni così dissonante con un’alimentazione diventata sempre più frettolosa ed individualista: sono nate le «zupperie», termine riconosciuto anche dal Vocabolario Treccani, nuova moda ristorativa che colma un vuoto di tempo e di affetti.

Se ne lamentava già Aldo Fabrizi nella sua raccolta di poesie dal non casuale titolo «Nonna Minestra» e, criticando la scarsa qualità di zuppe e minestre della ristorazione del suo tempo, affermava: «Ce so’ rimasti, minestroni e brodi… ch’è proprio robba, mammamia, da chiodi!»  («Le minestre»).

Chissà come avrebbe reagito Fabrizi al proliferare di brodi,  zuppe e minestre in brick o sotto vuoto che riempiono gli scaffali dei supermercati, lui che pure aveva sdoganato il dado  (vegetale e di carne) come emancipazione dal sempiterno odore di brodo che impregnava le case delle famiglie meno abbienti.

Se ne parla qui al singolare, e  si continuerà talvolta a farlo,  malgrado i ricettari distinguano tra brodi, minestre e zuppe, perché la suddivisione è puramente tecnica e dipende dal contenuto delle diverse pietanze, ma la matrice, quella di alimenti che conferiscono sapore e consistenza ad un liquido bollente cotto in una pentola, la gestualità, il mestolo che affonda nella zuppiera e ne esce colmo di cibo da distribuire nelle scodelle, e persino le stoviglie: la zuppiera, la scodella, il mestolo ed il cucchiaio, sono comuni e rimandano alla civiltà contadina, alla stessa scoperta del fuoco e della possibilità di utilizzarlo per cuocere in acqua alimenti, come i cereali, che il nostro corpo non può assumere crudi.

E al singolare, con il termine «potage» (che in francese antico aveva il senso di cotto in una pentola) erano considerati dalla cucina francese già nel medioevo, lo erano nel ponderoso trattato di Marie-Antoine Carême («L’Art de la Cuisine Française») e lo saranno ancora in «Ma Cuisine» di Auguste Escoffier.

Un cibo che attraversa la Storia e le cucine di tutto il Mondo

Noi occidentali siamo debitori verso la Mezzaluna fertile, la terra tra Nilo ed Eufrate da cui è nata la nostra agricoltura, di tutto il cibo pre-americano e anche delle zuppe: nelle Yale Culinary Tablets, le tre antiche tavolette in carattere cuneiforme risalenti alle civiltà mesopotamiche che hanno rivelato un articolato sistema di ricette,  non manca anche quella di una zuppa, denominata  pashrutum, non riproducibile con gli ingredienti odierni.

In realtà però, come hanno accertato gli archeologi, già nel Paleolico i nostri progenitori erano passati dalla cottura arrostita a quella per bollitura soprattutto di semi e radici.

Non sorprende affatto allora che brodi, minestre e zuppe siano  comuni sia alle cucine africane (dalla  Chorba del Magreb allo  Ewedu nigeriano) sia a quelle dell’estremo oriente, caraibica,  latino-americane e dei nativi americani.

In ogni epoca e ad ogni latitudine, con gl’ingredienti più diversi: dalla carne al pesce, dagli ortaggi ai legumi, dai cereali alle varie specie di erbe, sono sinonimo di alimento da condividere.

Da una mancata condivisione, quella di una minestra di lenticchie, la Genesi biblica innesca una svolta nella storia d’Israele, con la cessione della primogenitura da Esaù a Giacobbe.

Il racconto biblico, che ha i suoi buoni motivi per far passare per cattivo Esaù e per buono Giacobbe, può essere però letto in modo diametralmente opposto.

Esaù, infatti, non cede la primogenitura in cambio del proverbiale piatto di legumi, ne chiede solo la condivisione:  «Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono sfinito» dice infatti Esaù al suo gemello, invocando un patto ancestrale di condivisione del cibo nel clan  (ne chiede un solo un po’ di quella minestra, non tutta) a cui si oppone la scaltrezza di Giacobbe che approfitta dello stato di bisogno del fratello per condurlo ad uno scambio non solo iniquo, ma innaturale.

Il cibo del conforto

Il tratto comune dei brodi, delle minestre e delle zuppe non solo della tradizione italiana ed europea, ma direi di tutte quelle dei diversi popoli, è il conforto: la capacità di una scodella, o di una tazza se si parla di brodo, di rinfrancare, corroborare, calmare, riscaldare, curare persino,  come indicano i testi della medicina più antica sino a quelli della Scuola Medica Salernitana. 

Concetti ora ripresi dalle mode dietetiche di oltreoceano, con le dive del momento che ne fanno un consumo smodato per tenersi in forma.

E «brodo del conforto» era anche quel brodo che si preparava durante le notti di veglia religiosa per coloro che  alle prime luci dell’alba dovevano far ritorno a piedi alle proprie case.

Il brodo come pietanza degli ammalati e delle puerpere, le minestre come forma elementare e allo stesso tempo economica di sostentamento e infine le zuppe regine degli scarti vegetali in cui prevale la sacralità del dono del cibo e del lavoro che è occorso a procurarlo, in cui lo spreco è un atto contro natura.

Cibo da adulti perché solo in età adulta assume quel carattere evocativo che fa dimenticare le ribellioni giovanili alle minestre di cui è costellata la nostra cultura moderna e contemporanea.

«Cibo negletto e vile, degno d’umil villano!» lo definiva un giovanissimo Giacomo Leopardi nella sua poesia infantile «Contro la Minestra».

Come non citare poi la ribellione alla minestra, sabotata addirittura col petrolio,  di Giannino Stoppani, soprannominato «Gian Burrasca», dal personaggio del libro di Vamba col suo inno «Viva la pappa col pomodoro» cantato da Rita Pavone nella riduzione televisiva dei primi anni ’60 su testo di Lina Wertmüller e musica di Nino Rota.

Per arrivare sino alle strisce di Quino con l’eterna lotta di Mafalda contro la minestra materna.

Con l’avanzare dell’età i brodi, le minestre e le zuppe diventano invece dense non solo di sapori e di profumi, ma di ricordi, rimandando alle mani familiari che li preparavano, e di significati che vanno oltre il gusto  per rivolgersi alla parte più intima della nostra umanità.

Come nel racconto di Mario Rigoni Stern nel suo  «Il sergente nella neve».

«Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria.

“Mnié khocetsia iestj” (“datemi da mangiare”) – dico.

Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata.

“Spaziba” (“grazie”) – dico quando ho finito.

E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto.

“Pasausta” (“prego”) – mi risponde con semplicità.

I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi.».

Una zuppa di latte e miglio capace non solo placare il freddo e la fame, ma di fermare il tempo, la guerra, la necessità, dettata da una divisa e da un’arma, di odiarsi.

Il racconto, tanto attuale oggi, ha il potere di farci tornare agli albori dell’umanità: una caverna, un focolare, donne e uomini che parlano un linguaggio a noi sconosciuto e  si dividono un brodo, una minestra, una zuppa, calore e nutrimento.

Il Mondo ed i suoi pericoli sono rimasti fuori.

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