In memoria di Alda Merini

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A quasi due anni dalla morte della poetessa dei navigli Milano non dimentica: sono moltissime le iniziative che ogni anno vengono dedicate ad Alda Merini, alla sua arte ed alla sua vita, al suo modo poetico di vivere. Quest’anno anche Villa Clerici ha voluto dedicarle uno spazio all’interno della sua rassegna settembrina.

La giornata decisa per la “Serata Alda Merini” è fredda e piovosa: la prima vera sera d’autunno che rende inutilizzabile il teatro greco ospitato nei giardini della villa. Gli ospiti vengono pertanto convogliati in una piccola stanza al fondo dell’ala sinistra del palazzo: uno spazio raccolto all’interno dei lunghissimi corridoi percorsi per raggiungerlo, un luogo caldo nell’autunno incipiente all’esterno, forse infine lo spazio e il tempo ideale per un ricordo e per la poesia.

A dare il benvenuto è Aldo Colonnello, Vice Presidente del Comitato Promotore per l’assegnazione del Nobel in vita ad Alda Merini, con il suo ricordo intimo e personalissimo della poetessa: il ricordo dei suoi 46 elettroshock e di quelli che la stessa Merini definiva i suoi “tagliandi al San Paolo”, l’ironia con la quale era in grado di vivere quella condizione invece tragica, le telefonate lunghissime con le quali manteneva i suoi contatti con il mondo e con la realtà, quelle stesse telefonate che divennero il suo particolarissimo modo di poetare, di cogliere l’attimo dell’ispirazione condividendolo sempre con chi amava.

Sul palco salgono quindi Federica Brivio, Maria Brivio, Roberto Brivio, Aldo Colonnello, Emanuele Carlo Ostuni, Gerardo Paganini e Maria Grazia Raimondi. Gli attori si alternano per un’ora in una lettura appassionata di poesie e di testimonianze sulla vita della poetessa lasciate dai suoi numerosissimi amici, da tutti i personaggi del mondo della cultura che sono riusciti a conoscerla. La selezione operata da Roberto Brivio tesse la sottile trama di una vita: il rapporto con la religione, con il proprio corpo, con la poesia, con la follia.

In tal modo anche chi non ha mai conosciuto la poetessa può in pochi istanti entrare nel suo mondo e rimanerne affascinato, cogliere la profonda e sofferta dicotomia tra corpo e spirito, tra dolore e poesia: l’una sempre figlia dell’altro.

Bella ridente e giovane
con il tuo ventre scoperto,
e una medaglia d’oro
sull’ombelico,
mi dici che fai l’amore ogni giorno
e sei felice e io penso che il tuo ventre
è vergine mentre il mio
è un groviglio di vipere
che voi chiamate poesia
ed è soltanto tutto l’amore
che non ho avuto
vedendoti io ho maledetto
la sorte di essere un poeta.

Insieme a chi l’ha conosciuta entriamo nella sua casa, ne vediamo il disordine soddisfatto, i numeri di telefono scritti sui muri con il rossetto, sentiamo il rumore di quella gioventù che vedeva passare sotto le sue finestre, quella stessa gioventù che non canta più ma “transita”, quelle stesse finestre che ospitano oggi la casa-museo a lei dedicata.

Una selezione delle sue poesie viene quindi letta sul palcoscenico da un partecipe Alessio Boni che riesce quasi a commuovere il fratello della Merini presente in sala, proprio lui chiude la serata estraendo dalla tasca un piccolo foglio pieno di una scrittura minuta e fittissima, un foglio che porta nelle sue tasche dal 1948 e che recita:

Dalla solita sponda del mattino
io mi guadagno palmo a palmo il giorno:
il giorno delle acque così grigie,
dall’espressione assente.
[…] Ma viene a volte un gobbo sfaccendato,
un simbolo presago d’allegrezza
che ha il dono di una strana profezia.
E perché vada incontro alla promessa
lui mi traghetta sulle proprie spalle.  

Di Claudia Durantini

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