Libera concorrenza, in Europa si comincia a pensare che non sia il paradiso terrestre

Libera concorrenza. Su questo concetto si basa l’A-B-C della scienza economica. Si tratta di una situazione puramente teorica, dove il mercato è talmente polverizzato che il prezzo è sostanzialmente fissato dal consumatore. Le imprese che non riescono a produrre a costi compatibili con quelli della domanda, escono dal mercato. Con l’avvento della Reaganomics negli Stati Uniti e del thatcherismo in UK è sorta, soprattutto in Europa, la convinzione che il sistema della libera concorrenza sia il non plus ultra dell’efficienza economica.

Il crollo del sistema comunista è sembrato per molti la prova del nove dell’esattezza di tale convinzione. Quindi, con il Trattato di Maastricht (1992) si è provveduto a rifondare l’Europa su tali basi. L’introduzione dell’Euro ne è stata la conseguenza, così come il progressivo declino della produttività dell’industria europea. Per questo sarebbe inutile tornare alle monete locali, se non si rimettono in discussione le basi economiche e teoriche del Trattato.

I ministri economici dei maggiori paesi chiedono di rivedere le linee guida sulla libera concorrenza

Dopo un dodicennio di crisi economica, qualcuno comincia finalmente a rimettere in discussione tale principio. Si tratta, in particolare, dei quattro ministri dell’economia di Germania, Francia, Polonia e il nostro Stefano Patuanelli. Stiamo parlando delle tre maggiori economie europee e del quinto Stato per popolazione sui 27 della UE. I quattro hanno inviato una lettera alla commissaria per la concorrenza, la danese Margarethe Vestager per sollecitarla a rivedere le linee guida che ostacolano le fusioni tra due o più imprese.

Essi chiedono inoltre di considerare l’intervento statale – visto sinora come il fumo agli occhi – quanto meno come un fattore da verificare caso per caso, secondo le necessità. Sarebbe questa la condizione necessaria per consentire la nascita di grandi imprese, anche multinazionali, in grado di competere con i colossi cinesi e americani. Tali fusioni sono sempre state nel mirino della commissaria danese. Allo stato attuale sembrano diventare indispensabili per evitare ulteriori crolli della produzione e l’aggravarsi della disoccupazione nella UE.

I dati statistici relativi al 2019, infatti, sono implacabili. La produzione industriale della “Grande Germania” è crollata del 6,8%, di cui il 2,5% nel solo mese di dicembre. In Italia si è avuta una contrazione dell’1,3% su base annua. Anche in Francia, pur mancando ancora i dati definitivi, dovrebbe prevalere il segno meno. Addirittura nel liberista Giappone, la produzione industriale registra il netto calo del 4,7%.

Il principio della libera concorrenza vale per l’Europa ma non per Cina ed OPEC

Se i quattro ministri stanno tentando di tirare per la giacchetta la commissaria Vestager, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha contattato, in senso analogo, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. «Le norme sulla concorrenza – ha sostenuto Conte – sono state elaborate anni fa, quando non c’era ancora il mercato globale. Riproporre quelle regole adesso e applicarle in modo pedissequo è un errore e limitativo per i nostri campioni industriali».

L’accenno di Conte al mercato globale è riferito alla Cina. Nei confronti della Cina, infatti, il mondo occidentale ha commesso il più grande errore economico del secolo. Nel 2001, grazie anche alla pressione del presidente Usa George W. Bush, la Cina fu ammessa nel WTO. In tal modo, si è dato il consenso alla penetrazione in Europa (e negli Usa) dei prodotti cinesi a prezzo concorrenziale.

Non si è tenuto conto, però, che al proprio interno non è la libera concorrenza a determinare i prezzi delle merci e il costo della mano d’opera. Tali parametri sono definiti dal partito comunista cinese che li fissa in base alla sostenibilità dei prezzi che pratica all’estero. Inoltre è lo stesso Pcc che quantifica quantità e costi delle importazioni cinesi. In sostanza abbiamo aperto alla Cina i nostri mercati, concedendogli di operare in regime “protetto” al proprio interno.

Lo stesso discorso vale per i paesi produttori di petrolio (riuniti nell’OPEC) e di gas naturale (GECF). Sono essi a determinare quantità della produzione e prezzi e non certo in base alle esigenze del consumatore europeo. Per questo molte imprese in Europa e in America hanno chiuso e la nostra produzione è progressivamente calata.

Margarethe Vestager tira dritto

La commissaria europea Vestager sembra però continuare a perseguire con estrema miopia le sue convinzioni. «Abbiamo un modo europeo di fare le cose – ha detto – Un modello che funziona. Continuiamo a usarlo e usarlo ancora». A febbraio 2019 Vestager aveva già bloccato la fusione tra le due più grandi aziende europee nel settore ferroviario: la francese Alstom e la tedesca Siemens.

Giovedì scorso, la commissaria ha annunciato un’indagine sull’acquisizione dell’olandese GrandVision da parte del colosso italo francese EssilorLuxottica di Leonardo Delvecchio. Entro il 22 giugno potrebbe decidere se fermare l’acquisizione. Inoltre, il prossimo 17 aprile dovrà pronunciarsi sulla fusione tra l’italiana Fincantieri e la francese Chantiers de l’Atlantique (ex Stx). Per restare in campo navale, sembra proprio che qualcuno stia proseguendo a ballare sul ponte della nave, mentre il Titanic affonda. 

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