Il concetto di utopia

utopia

Il termine “utopia” appare per la prima volta con Tommaso Moro nella celebre opera del 1516 “Utopia”. Utopia risulta composto di ou, “non”, e tópos, “luogo”, ma già nell’opera di Moro  non è chiaro se essa sia l’eutópos, il regno perfetto della felicità, o l’outópos, il luogo inesistente per antonomasia, o l’una cosa e l’altra allo stesso tempo. D’altra parte, “utopia” non è un termine neutro come neanche “utopista”: nessuno dichiarerebbe a cuor leggero di essere un utopista. Effettivamente, già pochi anni dopo la pubblicazione dello scritto di Moro, la parola si è variamente connotata, ha esteso e amplificato il suo significato ma ha anche perduto in precisione. Si parla di utopia sia per il testo di Moro e i suoi successivi imitatori, sia per testi e autori anteriori come la Politeía e le Nómoi di Platone. Una descrizione utopica, in effetti, può già essere considerata la descrizione del giardino di Alcinoo contenuta nell’Odissea.

Esiodo parlava di un’Età dell’Oro nella quale non si diventava mai vecchi, non avevano preoccupazioni e ansietà, né conoscevano alcun tipo di male o miseria. Tra gli utopisti che hanno preceduto Moro  senza averne il nome si possono ricordare Aristofane, Plutarco, Ovidio, Virgilio ed Orazio. Le utopie di questo periodo descrivono perlopiù luoghi o ere di felicità, di libertà e uguaglianza. Nell’età cristiana invece le utopie hanno riguardato soprattutto l’ambito religioso: alcune di esse erano in stretto rapporto con lo sviluppo del monachesimo, mentre altre erano manifestazioni di una delle possibili forme del millenarismo. Utopia religiosa può essere considerata anche la civitas Dei di Sant’Agostino. Lo spartiacque tra l’utopia ante litteram e l’utopia così detta è la già citata Utopia di Moro. A ruota seguono La città del sole (1602) di Tommaso Campanella e La nuova Atlantide (1627) di Francesco Bacone. Dalla fine del XVIII all’inizio del XX secolo si hanno molte utopie sociali e politiche di carattere a-religioso o persino antireligioso, che mirano a promuovere una qualche forma di socialismo o comunismo: Viaggio in Icaria (1840) di Étienne Cabet, La razza futura (1871) di Edward Bulwer-Lytton, e Notizie da Nowhere (1890) di William Morris.

Torniamo ora ad analizzare il significato che con il passare del tempo ha assunto il neologismo di Moro. Nel corso del ‘600 e del ‘700, come testimoniano varie fonti dell’epoca, all’ambiguità semantica se ne sono aggiunte altre dovute all’estensione dell’uso della parola “utopia” o al valore  che di volta in volta ha assunto. “Utopia” diviene ben presto sinonimo di “chimera”, di “impossibile” e di “sogno irrealizzabile”. L’utopia verte soprattutto su temi politici e sociali, tanto che il termine tedesco “romanzo politico”,  diventa sinonimo di “utopia”. Da questa spiegazione si evince che l’utopia non è intesa solo come sogno, evasione o ipotesi mentale, ma inizia ad assumere le caratteristiche di un progetto rivolto all’attuabilità e alla concreta “felicità dei popoli”.Una svolta fondamentale ha luogo nell’Ottocento e nel Novecento: Owen,  Fourier, Saint-Simon, propongono società ideali presentate come verità scientifiche fondate e sostenute da precise teorie socio-politiche. Il fatto che a volte la forma narrativa fosse ancora il viaggio nel tempo o nello spazio è dovuta semplicemente alla necessità di rendere più appetibili le dottrine scientifiche sostenute dall’autore. L’evoluzione semantica e concettuale è superbamente riassunta nelle parole di Lamartine: “Le utopie spesso non sono altro che verità premature”.

Già da queste prime osservazioni si comprende che i diversi autori usano in modo differente il termine “utopia”. Eppure tutti questi usi della parola hanno in comune il riferimento all’immaginario ed all’ideale. Utopie sono i testi letterari di cui si è detto, che concernono società ideali e ideali modi di vivere, il cui scopo è la perfezione intesa come armonia. Utopie sono anche gli stessi luoghi e le stesse condizioni perfette. Le utopie si rivelano dunque come dei progetti dell’immaginazione umana. Anche se le utopie nel corso del Novecento hanno investito tutte le forme dello scibile (arte, letteratura, architettura e urbanistica, scienza), quelle di carattere politico e sociale sono di gran lunga le più numerose. Quando gli scrittori di utopie parlano di un altro mondo, il loro non è solo un sogno o una nostalgia, bensì la proposta di qualcosa da realizzarsi o da imitarsi. Spesso al fondo dell’utopia è un radicato senso di frustrazione e insoddisfazione nei confronti della realtà: lo stesso Moro scriveva perché tormentato dalle difficili condizioni degli Inglesi nel primo Cinquecento. In ogni caso, quindi, il sogno implica una critica della realtà presente.  

Leonardo Comple  

Foto: samgha.wordpress.com

 

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