Il bianco, il verde e il giaciglio d’acciaio

L’imprevisto può nascondersi dietro ogni angolo, dietro ogni porta, dietro ogni volto che incrociamo per strada. Può presentarsi sotto forma di un insegnamento o di un tradimento, di un contrattempo o di una catastrofe, di una gomma forata o di una vincita alla lotteria. E poi ci sono i grandi imprevisti della storia, quegli eventi che sconvolgono non una, ma migliaia di vite, negando o ridisegnando il loro futuro. Imprevisti come il terremoto, o la guerra. Nel racconto Giaciglio d’acciaio di Ben Pastor (scrittrice italiana naturalizzata cittadina statunitense il cui vero nome è Maria Verbena Volpi) per esempio, troviamo l’ufficiale tedesco Martin-Heinz von Bora che a soli ventinove anni incontra la morte nella drammatica battaglia tra le rovine di Stalingrado. 

L’attesa della fine

Il racconto si presenta come l’ultimo pezzo di  un diario che Bora tiene da sei anni. Una delle prime cose che saltano all’occhio è la sua ansia di quantificare. Contare è l’unico modo che ha per definire una realtà dolorosamente amorfa e mantenere l’autocontrollo: «Conterei i capelli che ho in testa, se potessi […]; conterei una a una le mie cellule corporee, gli atomi che mi costituiscono. Faccio questa quantificazione per mantenere la calma. Per apparire a tutti, in ogni momento, il ritratto dell’autocontrollo. Sotto sotto, chissà. Nevrosi e pazzia sono accoccolate là fuori non meno dei nostri nemici, mietono quotidianamente vittime non meno di loro». 

Resistere alla nevrosi e alla pazzia è difficile, e non solo perché il gelo e le condizioni di vita dei soldati tedeschi in Russia sono insostenibili. Bora sa già che lui e i suoi compagni di sventura sono dei condannati a morte. Lo sa da quando il fratellastro Peter ha pronunciato la frase: «Nostro padre ti augura il meglio». Parole in codice che significano che la missione di soccorso guidata dal generale  Hoth è fallita, e i rinforzi non arriveranno. L’Armata 6 è sola. La Grande Mietitrice si fa sempre più vicina e nel bianco senza fine di Stalingrado anche gli oggetti, i documenti, i medicinali e ogni manufatto dell’uomo sono destinati a perire.

Il giaciglio d’acciaio

Il giaciglio d’acciaio che dà il titolo al racconto non è altro che Stalingrado, la città senza colori in cui tra il 1942 e il 1943 i soldati della 6a Armata tedesca sono andati a morire. L’espressione è tratta dalla Ballata sonnambula di Federico Garcia Lorca, di cui troviamo un pezzo in esergo: «Verde ti desidero verde/Verde vento. Verdi rami/… Grandi stelle di ghiaccio/Vengono con lo squalo d’ombra/Che apre il cammino all’alba/… Voglio morire/Decentemente in un giaciglio./D’acciaio, se possibile,/Con vere lenzuola». 

Anche Bora nonostante il giaciglio d’acciaio, vuole morire decentemente e con vere lenzuola: con coraggio e seguendo la propria coscienza. Sebbene sia un ufficiale ubbidiente dell’esercito del führer, il personaggio di Ben Pastor è anche un uomo che nell’ambito della poca libertà d’azione che gli è concessa non rinuncia mai all’etica e alla pietà. Evita di angosciare i suoi soldati rivelando loro che presto moriranno e preferisce cadere combattendo che andare incontro a una cattura che basterebbe solo a rimandare l’appuntamento con la morte. Ma soprattutto Martin Bora è un ragazzo della Prussia orientale che nel bianco intervallato solo dal nero degli interni cerca il verde dei ricordi e degli affetti, desiderandolo e invocandolo come Lorca nel suo componimento. 

Il bianco

In Giaciglio d’acciaio le metafore rappresentate dal bianco e dal verde ricorrono con insistenza. Il bianco è il colore della neve che uniforma il paesaggio di Stalingrado. Annulla le coordinate spazio-temporali, seppellisce ogni cosa e rende invisibile l’orrore che ogni giorno si consuma sul campo di battaglia. Ma non lenisce il dolore. Anzi, copre le tracce e nega la memoria. «La neve non è metaforica, e non ha tempo di sporcarsi. Continua a cadere; sangue umano e terra rivoltata dagli scoppi, escrementi, cadaveri e carogne ne vengono uniformemente coperti. Perdono lezzo, forma e bruttura. Già il corpo di un civile vi è scomparso sotto, come una mosca inghiottita dal latte». 

Nel bianco assoluto che cancella le orme non c’è passato, non c’è futuro, non c’è civiltà. Gli indirizzi vengono sostituiti da segni che indicano le posizioni tra cui i soldati si possono spostare, i rifugi non sono edifici ma crateri scavati nel terreno, le case e le abitazioni non vogliono dire più niente. L’abbrutimento coinvolge anche gli uomini che si riducono a bestie con i teschi che affiorano da sotto la pelle: vivi-morti che si muovono in un paesaggio lunare pieno di gabbie protettive e al tempo stesso imprigionanti.

Il verde

Al contrario, il verde è il colore della vita, delle gioie del passato e della speranza. Bora lo cerca con affanno, sia nella realtà che nei ricordi. Lo agogna come uno sprazzo di vita in un mare di morte, e in questa ricerca la sua memoria si rimette in moto. Lo riporta a Trakhenen, nel grande cimitero russo della Grande Guerra dove foglioline rotonde stanno ai piedi delle croci. E poi nel grande prato tagliato di fresco davanti alla proprietà di famiglia, sulla lunga striscia di maggese che verdeggia lungo il Rominte, nella foresta russa del quadro di Bakst appeso sulla testiera del letto dei genitori di sua moglie Benedikta…

I ricordi veicolati dal colore della speranza costituiscono un mondo interno in cui l’ufficiale può rifugiarsi, prendendosi una pausa dall’infinito bianco del campo di battaglia. In questa volontà di evasione egli dimostra tutto il suo attaccamento alla vita. All’esistenza fatta di affetti e bellezza, non alla semplice sopravvivenza. Ed è proprio la ricerca del verde della vita che gli impedisce di abbrutirsi o uccidersi come tanti dei suoi compagni di sventura.

Un frammento di felicità

Quando finalmente in fondo alla cassetta dei medicinali trova un pacchetto di sigarette color verde ramarro i ricordi prendono ancora più forza, diventano quasi tangibili. Bora ne sente l’odore e il sapore, e pur essendo nel bel mezzo di un dramma prova un senso di felicità: «È il mio regalo di Natale, e se muoio domani, muoio contento». Conserverà il pacchetto nel taschino dell’uniforme finché la situazione non sarà talmente disperata che anche gli ordini verranno meno e i soldati perderanno definitivamente ogni punto di riferimento.

Nel momento più buio Bora spezzetta la carta verde. Ne distribuisce un frammento a ogni soldato della sua armata e lo inghiotte con la solennità con cui si riceve l’eucarestia. Dopodiché, armato di adrenalina e vitalità, si incammina lungo una strada che quasi sicuramente lo porterà al suo giaciglio d’acciaio. E così finisce per andare incontro allo stesso destino dei russi caduti nel ’14 e sepolti nel cimitero tedesco di Trakhenen a cui faceva visita da ragazzo. Eternamente in terra straniera sì, ma per sempre nel dolce giaciglio delle «piante umide  che formano un tappeto di piccole foglie rotonde, verdissime». 

Foto di Alexfas da Pixabay 

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