“Happy End”, una gelida parabola intergenerazionale sul crollo dei valori tradizionali

happy endI Laurent sono una ricca famiglia dell’alta borghesia francese che vive a Calais. L’anziano capofamiglia Georges (Jean-Louis Trintignant), uomo d’affari in pensione, non sembra provare particolare affetto per i parenti, è stanco di vivere e medita di uccidersi; la figlia Anne (Isabelle Huppert), efficiente, pragmatica e spregiudicata, ha preso la gestione dell’impresa familiare, cerca di espanderla e di risolvere i problemi finanziari con l’aiuto del fidanzato, il ricco banchiere Lawrence (Toby Jones); il figlio Thomas (Mathieu Kassovitz) è uno stimato primario tutto preso dal lavoro e poco interessato alla famiglia, ha lasciato moglie e figlia, si è risposato, ha avuto un altro figlio e nello stesso tempo coltiva una relazione clandestina virtuale (che si consuma spesso in chat) con una giovane musicista; la nipote Eve, figlia di Thomas, che dopo la morte della madre per overdose di farmaci torna in famiglia sotto la custodia del padre, è un’adolescente anaffettiva ma già consapevole a 13 anni del mondo disincantato degli adulti, e trascorre le giornate a riprendere con la videocamera dello smartphone quello che succede intorno a lei, come fosse un diario; il nipote Pierre, figlio di Anne, è un ragazzo sbandato senza ideali, dedito all’alcol e ai divertimenti, disinteressato ad occuparsi dell’attività di famiglia. Quando un incidente in un cantiere dell’azienda provocherà la morte di un operaio immigrato e diversi feriti, per i Laurent sarà una scossa alla routine che cambierà le loro esistenze per sempre.

Dopo cinque anni dallo struggente Amour, premio Oscar 2013 come miglior film straniero, Michael Haneke torna alla regia con un film coerente alla sua visione pessimistica dell’uomo e della società in cui opera. A partire dal titolo beffardo, un “lieto fine” che non può esistere per nessuno dei protagonisti, Haneke mette sotto la lente del microscopio una famiglia dell’alta borghesia francese nel contesto multirazziale e strategico di Calais, città di confine e sede del più grande centro di accoglienza d’Europa. Pur non essendo un film sulle migrazioni, ci sono alcune scene con rifugiati africani in cerca di un passaggio per l’Inghilterra che mettono in evidenza le disuguaglianze sociali che hanno permesso a una famiglia borghese come quella dei Laurent di prosperare anche sfruttando queste situazioni. Il registro è quello della commedia nera, l’arma usata è il cinico sarcasmo, l’occhio che osserva sempre lucido e distaccato: attraversata dalla metafora del “crollo” (la frana che colpisce il cantiere) Happy end è una gelida parabola intergenerazionale sul crollo della famiglia, di più, sul crollo di una certa borghesia perfida e marcia, e ancor più in generale, sul crollo dei valori tradizionali propriamente europei che ormai per il regista sono giunti al capolinea. L’austriaco autore di Funny games, La pianista e Il nastro bianco si dimostra sempre più convinto dell’impossibilità di ripresa del Vecchio Continente, ormai troppo assimilabile (e a sua volta assimilato) agli Stati Uniti: se già negli anni ’80 il regista canadese Denys Arcand aveva percepito l’edonismo americano come causa principale della crisi ne “Il declino dell’impero americano” e all’inizio del nuovo millennio con “Le invasioni barbariche”, allo stesso modo Happy end rappresenta una resa di una generazione che nulla può contro il dilagare dell’individualismo più meschino: aridità di sentimenti di chi preferisce nascondersi dietro la videocamera di un telefono, lo schermo di un computer, la chat al posto del dialogo, delle relazioni umane. L’unico personaggio che sembra aver avvertito questa crisi è il nonno Georges, che vede nella morte la soluzione al malessere, atto estremo che però non riesce a portare a termine, quasi come se fosse la sua punizione.

La crisi che investe la società non risparmia nemmeno il cinema: qual è oggi il ruolo del regista? Cosa deve mostrare al pubblico? Formalmente Haneke, come di consueto, sceglie la strada del gelido iperrealismo, suo marchio di fabbrica: campi lunghi, assenza di primi piani (troppo personali ed empatici), musica ridotta all’osso, macchina da presa fissa e personaggi che agiscono nella quotidianità con (pochi) dialoghi spesso lasciati volutamente sospesi, sussurrati, incompleti; in più ricorre a nuove prospettive visuali tramite mezzi tecnologici contemporanei (videocamere dei cellulari, riprese di schermi di computer con lunghe chattate silenziose) in una ricerca costante del grado zero di finzione, con l’asciuttezza e il rigore formale di chi esamina da “esterno” una situazione di cruda realtà quotidiana, un documentarista che vuole esporre una tesi. Solo in questo modo la messa in scena può ritenersi coerente con la filosofia che la sottende.

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