Edgar Allan Poe e l’ombra del gatto nero

Il gatto nero è uno dei racconti più celebri e terribili di Edgar Allan Poe. Poche pagine che scorrono a ritmo incalzante, un arco di tempo lungo e indefinito, momenti di suspence che hanno il sapore dell’angoscia. Siamo nel 1843, in pieno periodo positivista, eppure la chiarezza analitica tipica dell’epoca viene messa da parte in favore di un mistero che non trova soluzione. Lo scopo del racconto non è presentare un inquietante congegno scomposto da rimettere insieme con la forza della logica. È l’occasione di far emergere gli istinti più bassi che ogni individuo potenzialmente potrebbe veder emergere dal fondo del suo essere. 

La perversità

Il più basso di questi istinti è la perversità: «Di questo spirito la filosofia non tiene conto; ma io non sono tanto sicuro dell’esistenza della mia anima, quanto lo sono del fatto che questa forma di malvagità perversa è uno degli impulsi primordiali del cuore umano — una di quelle inscindibili facoltà primarie, — sentimenti, che governano il carattere dell’Uomo». Poe identifica la perversità come un impulso a violare le leggi: le buone leggi interiori che impediscono a ognuno di fare del male agli altri, e soprattutto a se stessi. Poi aggiunge: «Fu questa insondabile propensione dell’anima a torturare se stessa — a fare violenza alla propria natura — a compiere il male per il piacere di farlo — che mi spinse a continuare a portare avanti l’offesa che avevo inflitto all’inoffensiva bestiola»

L’animale di cui il protagonista/voce narrante parla è Plutone, un bellissimo gatto nero acquistato quando ancora il padrone non era caduto nella spirale della sua perversità. Si tratta di un animale docile, che a dispetto di ogni superstizione è capace di un amore e di una fedeltà sconfinati. «C’è qualcosa, nell’amore disinteressato e capace di sacrifici di una besitola, che va direttamente al cuore di chi ha avuto frequenti occasioni di mettere alla prova la gretta amicizia e l’evanescente fedeltà del semplice Uomo». Il padrone avverte la sua piccolezza in confronto alla grande capacità d’amare del suo gatto. Inizialmente si sforza di rispettare questa superiorità, poi comincia a maltrattarlo, proprio come fa con la moglie e con gli altri animali che ha in casa.

Il senso di colpa

Una notte, sotto l’effetto dell’alcool (vizio sperimentato in prima persona da Poe stesso), il padrone cava un occhio al gatto. Da questo momento, nel corpo mutilato del povero Plutone vede la prova concreta della sua perversità e un sottile senso di colpa inizia a farsi strada in lui. Plutone da parte sua smette di amarlo e comincia a sfuggirgli. Ciò fomenta ancora di più l’irritazione del padrone crudele, che finisce per impiccarlo a un albero. «L’impiccai mentre le lacrime mi cadevano dagli occhi ed il più atroce rimorso tormentava il mio cuore. L’impiccai perché sapevo che mi aveva amato e perché non mi aveva mai dato motivo di sentirmi offeso — l’impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato — un peccato mortale».

Da questo momento il ricordo del gatto inizia a perseguitarlo come un’ombra insistente sulla sua vita già in decadenza. Il protagonista avverte un senso di colpa forte, ma che agisce in modo periferico, non arrivando a toccare l’anima che egli crede in sé assente. Per placarlo adotta un gatto identico a Plutone. Stesso colore, stesso occhio cavato. L’unica differenza è una macchia bianca sulla pancia che giorno dopo giorno assume sempre più la forma di una forca. La forca rimanda all’impiccagione del primo Plutone e simboleggia la condanna a cui il padrone sta andando incontro per aver trasgredito la legge

Il potere della giustizia

Non si sa se i fatti narrati dal protagonista siano solo una particolare concatenazione di coincidenze o se la storia sia effettivamente attraversata dal sovrannaturale. Non si capisce se i gatti siano effettivamente due o se sia sempre lo stesso Plutone che ritorna nella vita del padrone per ricordargli la sua colpa. D’altronde l’unico punto di vista che abbiamo è quello di un narratore che all’epoca dei fatti aveva una percezione straniata dall’alcool e dal conflitto tra perversità e senso di colpa. 

Una sola cosa è certa: il racconto si chiude nel solco della giustizia. Una giustizia che sembra incarnata dal gatto ma che in realtà agisce sul personaggio dall’interno. Dopo aver ucciso la moglie e averla murata viva in cantina il protagonista riceverà una visita dalla polizia. Il gatto tradirà la presenza del cadavere con il suo miagolio straziato, ma prima di tutto sarà lui stesso a tradirsi. Colpa dell’ennesima perversione che spinge l’autore del delitto perfetto a fornire un indizio della propria colpevolezza. Come se non rivelandola la sua opera non fosse mai esistita.

Fonte foto: gcomegatto.it

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